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La
mistica come via di ricerca della Verità - Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Il libro dell'Amico e dell'Amato
di Raimondo Lullo
APPUNTI
PERSONALI A MUOVERE DA ALCUNE FRASI DEL LIBRO ***
Paul
Klee, Testa con barba alla tedesca, olio e penna su carta, 1920,
*** Nota: Questi poveri e piccoli appunti sono dedicati con stima profonda
ad Aldo Stella, che ha contribuito ad aprirmi il cuore e la
mente verso luoghi, prima di lui, impensabili.
«Il
cuore dell'Amico volò verso le vette dell'Amato, per non avere
impedimenti ad amare nell'abisso del mondo. E quando fu con l'Amato lo
contemplò nella gioia; e l'Amato lo fece scendere nel mondo perché lo
contemplasse nella pena e nella tribolazione.»
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Introduzione
"Più
salivo in alto / più il mio sguardo s'offuscava, / e la più aspra
conquista / fu un'opera di buio; / ma nella furia amorosa / ciecamente
m'avventai / così in alto, così in alto / che raggiunsi la preda"
(Giovanni
della Croce).
Questi
non sono che semplici appunti, idee, suggestioni e non hanno la pretesa di
organicità e di completezza. Derivano da riflessioni personali e si
nutrono di citazioni, proprio a dimostrazione di un debito che ho nei
confronti di tanti autori diversi che hanno arricchito la mia vita e la
mia esperienza spirituale. Non
sono appunti conclusivi né definitivi visto che la vita ci sorprende
continuamente con nuovi spunti, nuove occasioni di riflessione, nuovi
traguardi, mai definitivi.
1.
Una Sola la Verità
"L'Amico
diceva all'Amato che molte erano le vie per le quali veniva nel suo cuore
e si mostrava ai suoi occhi, e molti i nomi con i quali lo chiamava la sua
lingua; ma l'amore con cui lo faceva vivere e morire non era che uno, uno
solo" (RL, 90 ).
"L'Amico
spinse i suoi pensieri nell'immensità e durata del suo Amato, e non vi
trovò inizio, né centro, né fine" (RL, 69).
"L'Amico
chiese al suo Amato se in lui c'era ancora qualcosa da amare; e l'Amato
rispose che c'era tutto ciò che poteva far più grande l'amore
dell'Amico" (RL, 1)
Una
sola, la Verità, innegabile.
Come
una è la nostra vocazione: vivere eternamente il Vero ed unico Bene.
Una la regola della nostra vita finita, mortale: conoscere la Verità.
Conoscere la Verità è amarla. Amare la Verità è conoscerla e conoscere
noi stessi, la nostra Origine e il nostro Destino.
La
conoscenza della Verità non è una situazione di fatto, statica, ma è in
continua evoluzione. Non sarà mai una conoscenza totale, piena. Tale
divenire garantisce l'inviolabilità del Vero, irraggiungibile se cercato
con i nostri soli mezzi e le nostre misere possibilità. Per questo la
ricerca della Verità è inesauribile, così come il nostro amore sarà
sempre incapace, inadeguato, incompleto.
1.1.
Innegabilità del Vero
Nella
storia del pensiero occidentale, «appare l'idea di un sapere che sia
innegabile; non perché la società e gli individui abbiano fede in esso,
o vivano senza dubitare di esso, ma perché esso stesso è capace di
respingere ogni suo avversario. L'idea di un sapere che non può essere
negato né da uomini, né da dei, né da mutamenti dei tempi e dei
costumi, un sapere assoluto, definitivo, incontrovertibile, necessario,
indubitabile» (Emanuele Severino, La filosofia antica).
Lo
stesso afferma, in altri termini, il filosofo Aldo Stella: «La
contraddittorietà della negazione del Vero emerge con la consapevolezza
che la sua negazione intende essere comunque vera. Ne consegue che
Scrive
ancora Emanuele Severino (La verità e il nulla, p. 25ss.) che «il
termine alétheia appare costruito con la parola léthes,
che significa "oblio", preceduta da un'alfa privativa che
di fatto nega la parola stessa di cui si costituisce come prefisso. Un
semplice vocabolario di greco ci consentirà infatti di comprendere che,
in questo specifico ambito linguistico, parlare di verità significa
parlare di "non-nascondimento" e che dunque il contenuto della
parola "verità" sia il "non-latente". [...] Quando il
Greco pensa al disvelamento, e dunque all'alétheia, ha la chiara
percezione che questo disvelamento non disvela un contenuto qualsiasi, ma
un contenuto che invece non può essere smosso, scosso, negato. La lingua
greca ha a disposizione una parola formidabile per indicare la stabilità
propria del contenuto disvelato nell'alétheia. Questa parola è la
parola epistéme, che significa "ciò che nel disvelamento si
manifesta come stante e imponentesi su ciò che vorrebbe scuoterlo,
smentirlo, metterlo in discussione". Se dunque vogliamo restituire
alla parola greca alétheia il suo autentico significato dobbiamo
dire che per il Greco la verità è pensata come la manifestazione
dell'innegabile o, in altri termini, come il disvelarsi dello
stante.»
1.2.
Unicità del Vero
Scrive
Niccolò Cusano (Il Dio nascosto): «Non esiste che una sola
verità. Non ci è infatti che un'unità e la verità coincide con
l'unità, poiché è vero che una sola è l'unità. Come pertanto nel
numero non si trova che una sola unità, così nei molti non si trova che
l'unica verità. Per questa ragione, chi non coglie l'unità, ignorerà
sempre il numero, e chi non coglie la verità nell'unità, non potrà
conoscere mai nulla per davvero.»
Così
anche Meister Eckhart, nel Sermone "Unus deus et pater
omnium": «Quando Paolo [Ef 4,6] dice "un Dio" intende
con ciò che Dio è Uno in se stesso, e separato da tutto. Dio non
appartiene ad alcuno, e nessuno gli appartiene. Dio è Uno. Boezio dice:
Dio è Uno, e non muta. Tutto quel che Dio ha creato, lo ha creato
soggetto al mutamento. Tutte le cose, in quanto create, portano sulle
spalle la mutabilità. Questo vuol dire che noi dobbiamo essere Uno in noi
stessi, e separati da tutto, costantemente immobili, dobbiamo essere una
sola cosa con Dio. Al di fuori di Dio, non v'è che il nulla. [...]
"Un Dio": nel fatto che Dio è Uno, è compiuta la divinità di
Dio. Dio solo ha l'unità. L'unità è il modo di essere proprio di Dio:
da essa deriva di essere Dio, altrimenti non lo sarebbe. Tutto quel che è
numero dipende dall'Uno e l'Uno non dipende da nulla» [cfr. anche la pagina
su Eckhart per ulteriori testi].
2.
Amore della Verità
"Le
strade per le quali l'Amico cerca il suo Amato sono lunghe, pericolose,
cosparse di meditazioni, sospiri e pianti, e illuminate dall'amore (RL,
2).
Amare
la Verità è vocazione d'ognuno di noi; ma non è affatto semplice,
perché non si tratta di un amore comune, di per sé già complicato. È - e rimane per
tutti - vocazione infinita, in quanto tale amore deve percorrere vie
tortuose, difficili, impervie.
Se
la Verità fosse di questo mondo, noi stessi saremmo nella Verità,
saremmo noi stessi la Verità. Ma la nostra esistenza dimostra, attraverso
la tensione continua, la nostra lontananza dal Vero.
Eckhart
specifica che occorre amare unicamente «quel Bene da cui fluisce ogni
bene, giacché nessuna cosa è piacevole e desiderabile se non in quanto
Dio è in essa. Perciò non si deve amare un bene se non nella misura in
cui si ama Dio in esso; dunque non si deve amare Dio per il suo regno dei
cieli o per che altro, ma lo si deve amare per la bontà che egli è in se
stesso. Infatti chi lo ama per qualcos'altro non abita in lui, ma abita in
ciò per cui lo ama. Perciò, se volete dimorare in lui, non amatelo per
niente altro che per lui stesso» (Sermone "Permanete in me").
Successivamente, affermerà anche qualcosa in più (cfr. 5.1).
Vivere
in una condizione di vita particolare non è mai vivere la Verità intera,
ma unicamente seguire una delle molte vie che sono date. Così come
seguire una regola - ad esempio, monastica - non sarà mai vivere la
Verità totale. Scrive Benedetto da Norcia: "Questa Regola non
contiene la totalità di ciò che è giusto" (titolo del Capitolo 73
della Regola). Ogni strada può dunque condurre alla Verità, ma
non vi si sostituisce.
2.1.
Vocazione e regola
La
vocazione (= il fine della nostra vita) è la Verità; sia per tutti
coloro che ne sono coscienti, sia per gli altri che lo ignorano. La regola
(= come vivere in questa tensione al Vero) è riflesso della Verità. In
pratica, avendo negli occhi e nel cuore la Verità, nella vita di ogni
giorno, si devono compiere le azioni cercando, come afferma Eckhart,
soltanto la volontà di Dio e non altre cose (fare qualcosa di buono o
lasciare qualcosa di cattivo). Tutto ciò che si fa è cosa buona, se vi
è in noi l'amore di Dio. E l'amore di Dio è in noi soltanto quando
ricerchiamo (scevri da ogni presunta prospettiva di utilità) unicamente
il Vero. Non si deve pertanto tenere un comportamento particolare: occorre
vivere la vita di sempre, quella che abbiamo scelto o che ci è stata
riservata, ricercando la Verità, affidandoci alla nostra intenzione di
trovarla e sapendo che è la Verità stessa a suscitare la nostra
tensione, a condurci alla sua ricerca.
Tutto
ciò viene chiaramente affermato da Emanuele Severino,
nel libro "La verità e il nulla. Il rischio della libertà"
in un dialogo con Piero Coda: «Pensare il rapporto dell'uomo con la
verità come il raggiungimento di un desiderio, come la meta di un
cammino, come l'esito di una ricerca o come il risultato di un metodo
rischia infatti di condurci ad affermare l'impossibilità per l'uomo di
raggiungere la verità. Se la verità fosse davvero il punto di arrivo di
un percorso che ha per protagonisti gli uomini, noi ci troveremmo a
muoverci verso la casa della verità con passi che, in quanto precdenti
l'apertura della porta da parte della verità stessa, non apparterrebbero
ad essa, ma si compirebbero fuori di essa. Se così fosse, ci porremmo in
ascolto della verità con un udite che non è in grado di sentire la
verità stessa, ma che invece appare destinato, proprio in quanto è la
verità la padrona della casa cui noi stiamo bussando, a rinunciare ad
essere uditore della verità, per limitarsi invece ad ascoltare qualcosa
che precede la verità, ma che non ha nulla da spartire con essa. Se così
fosse, dunque, l'intero cammino dell'uomo verso la verità sarebbe così
estraneo alla verità stessa da costringerci a pensare ad esso come
radicalmente appartenente alla non-verità. Se la verità è in rapporto
all'uomo, essa non può che esserlo in termini originari: in caso
contrario la speranza dell'uomo di raggiungere la verità e la sua stessa
ricerca non potranno che avere un esito fallimentare. La verità va
dunque pensata non come l'esito di un processo di ricerca, non come un
possesso che si acquisisce, non come un punto di vista che si cerca di
comunicare, non come una convinzione personale, ma invece come una
presenza originaria che si evidenzia come conditio sine qua non
della stessa ricerca della verità. Quest'ultima, infatti, proprio in
quanto presenza originaria, è la condizione di possibilità stessa di
ogni viaggio e non invece il punto di arrivo di viaggi che, in quanto
preparati e realizzati nella non-verità, non potranno in alcun modo avere
la verità come proprio approdo.» Questa
argomentazione verrà ulteriormente precisata nei punti seguenti.
Confondere
fra il fine e il mezzo (o i mezzi) è estremamente facile. Spesso si
equivoca al punto che si dà più importanza al mezzo che al fine. Le
opere precedono, in questo modo, la fede e la giudicano, severamente. Fare
è sempre in seconda battuta rispetto al pensare. Le azioni sono sempre la
storicità dei pensieri e non è possibile invertire, a meno di falsità,
la sequenza. Questo è importante, perché quasi sempre il mondo giudica
dalle apparenze e non va, per incapacità o altro, alla ricerca del senso,
che sta dietro il visibile. Si finisce, anche in ambito spirituale, per
giudicare le anime dal proprio abito esteriore, piuttosto che valutarle in
profondità. Assume, dunque, paradossalmente, più importanza il fatto di
appartenere ad un gruppo religioso, compiere determinate azioni, farsi
notare, piuttosto che stabilire se le azioni e lo stare insieme siano il
riflesso di una fede e di un'intenzione pura.
Scrive
Teresa d'Avila che è «molto importante rendersi conto che Dio non conduce tutti per la
stessa strada; infatti può accadere che colui che si crede più
indietro sia invece più avanti agli occhi del Signore» (Cammino
di perfezione, Valladolid, 17, 2-7). In questo ambito occorre estrema
umiltà e mai giudicare situazioni o persone da ciò che appare, sapendo
che solo Dio conosce fino in fondo la nostra anima e il suo merito.
3.
La Strada Verso la Verità
"L'Amico
disse all'Amato: Tu che rivesti il sole di splendore, colma il mio cuore
d'amore. Rispose l'Amato: Se non t'avessi colmato d'amore non
piangerebbero i tuoi occhi, né tu saresti venuto in questo luogo a vedere
Colui che ti ama" (RL, 6).
Tutte
le strade particolari non porterebbero mai all'unica Verità se la Verità
stessa non le illuminasse con il suo Amore. E non cercheremmo la Verità
(l'Amore) se la Verità (l'Amore) non fosse in qualche modo già in noi .
"Manda la tua luce e la tua verità, siano esse a guidarmi, mi
portino al tuo monte santo e alle tue dimore" (Salmo 43,3).
È
scritto (Salmo 84,5) che, inoltre, sarà beato chi abita la sua casa, le
sue dimore: "Quando il salmista dice «beati» vuol far capire che
essi godono tanta felicità quanta se ne può immaginare. Ed è chiaro che
per questo sono beati, perché ti loderanno con devozione ed amore per
tutti i secoli dei secoli, cioè in eterno; infatti, non loderebbero in
eterno se non fossero felici in eterno. Nessuno certo potrebbe giungere a
questo traguardo con le sole sue forze, anche se ha speranza, fede e
carità; ma «beato chi trova in te la sua forza» (Salmo 84,6) per
l'ascesa alla beatitudine desiderata dal suo cuore" (S. Bruno,
Commento ai Salmi).
3.1.
Preghiera
La
preghiera più vera che possiamo fare (quella che supera ogni altra
preghiera e quindi in realtà l'unica preghiera) è quella di chiedere
luce per rischiarare i sentieri dell'esistenza, luce che illumini la
nostra precarietà, donandole un senso di eternità, di infinità e
bellezza. Questa è dunque la preghiera essenziale; preghiera di supplica,
ma in realtà non chiede nulla tranne l'essenziale per la nostra vita:
"Manda la tua luce e la tua verità, siano esse a guidarmi; mi
portino al tuo monte santo e alle tue dimore". Domandiamo con ciò
non qualcosa per noi, per la nostra vita o per qualche bisogno
particolare. Come scrive Eckhart «un uomo non dovrebbe mai pregare
per cose transitorie, ma domandare soltanto che sia fatta la volontà di
Dio e niente altro ed allora ottiene tutto». Così noi, preghiamo
soltanto per questo e tutto il resto ci verrà dato; qualunque cosa essa
sia, sapremo che è il meglio per noi, che ci siamo affidati alla volontà
di Dio.
3.2.
Desiderio infinito
Questo
atteggiamento esistenziale è una preghiera continua. È come un desiderio
continuo di Verità. Scrive Eckhart, citando Agostino, a proposito del
Salmo 37,10 (Signore, dinanzi a te ogni mio desiderio): «Il tuo
desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua la
preghiera. Forse che possiamo di continuo piegare i ginocchi, prosternarci
a terra o alzare le mani, per rispettare il comando dell'apostolo
"pregate senza tregua" (1 Ts 5,17). Non possiamo fare ciò
"senza tregua". Ma qualunque altra cosa tu faccia, se desideri
quel sabato eterno, non cessi di pregare. Se non vuoi smettere di pregare,
non smettere di desiderare; il tuo continuo desiderio è la tua continua
voce. Tacerai, se cesserai di amare. Il raffreddarsi dell'amore è il
silenzio del cuore; il calore dell'amore è il grido del cuore. Se è
sempre presente l'amore, tu invochi sempre, sempre desideri». E noi
sappiamo che "il Signore esaudì il desiderio dei poveri" come afferma il Salmo
(10, 17).
3.3.
Abbandono
La
vera preghiera è abbandono fiducioso nelle mani del Padre che ci ha fatti
mortali, destinandoci ad una vita immortale. Fede, speranza e carità
diventano quasi nulla rispetto all'atteggiamento profondo - della mente e
del cuore - di abbandono: non "pensare" Dio, ma lasciarsi
pensare da Lui. Non "amare" Dio, ma da Lui lasciarsi amare. Non
"essere" forti o potenti, ma rivestirci della sua potenza, della
sua forza, spogliandoci della nostra. La vita che viviamo è la sua. In
Lui risiedono onore, potenza, gloria e benedizione (cfr. Apocalisse 4,11).
La beatitudine è quella che ci fa essere poveri, affinché Dio ci doni
tutte le cose di cui necessitiamo. Il desiderio di Dio è l'unica cosa di
cui essere veramente ricchi.
Scrive
David Maria Turoldo, con l'essenzialità esauriente dei poeti: «È
noto all'universo / che tu sei la fonte del mio cantare: / la tua Assenza
mi fa disperato / la Presenza mi incenerisce: / E se voglio raggiungerti,
devo / liberarmi dalla volontà di cercarti: / andare oltre la stessa
mente, / solo lasciarmi pensare. / Pure il male dunque è un bene. /
Bisogna che la mente scompaia: / allora avverrà l'incontro / e né tu né
io saremo / E mentre io sempre più disperavo / di afferrarti, sentivo /
che eri tu ad assorbirmi: / fino ad essere insieme perduti» (Solo
lasciarmi pensare, in Canti ultimi).
4.
Intenzionalità
"L'Amico
chiese all'intelletto e alla Volontà chi dei due fosse più vicino al suo
Amato. Corsero entrambi e l'intelletto giunse al suo Amato prima della
Volontà" (RL, 19).
Per
ricercare (e trovare) la Verità non bastano i nostri sforzi, le nostre
opere - per quanto buone - tutto ciò che abbiamo o che siamo. Occorre
invece credere, affidarsi alla Verità, in una tensione che sa di non
poterla raggiungere mai pienamente: così solamente si lascerà trovare.
Cercata
in questo slancio intenzionale, l'uomo giungerà ad una pace interiore,
che è preludio di quella vera, profonda, finale. "L'anima abbisogna
di quella liberazione interiore in cui la concitazione del volere si
placa, il grido della brama tace; e questo si verifica fondamentalmente
nell'atto intenzionale in cui il pensiero riconosce la verità, lo spirito
ammutolisce dinanzi alla maestà sovrana della verità" (Romano
Guardini, Lo spirito della liturgia).
Il
filosofo Aldo Stella ha chiarito il senso di questo slancio che
egli chiama intentio veritatis, intenzione di verità: «L'anima
è descritta [nel Fedro di Platone] come una "pariglia alata",
ossia come una sintesi di opposti. In quanto i termini si oppongono, essi
si escludono; ma in quanto i termini si pongono in forza del loro stesso
opporsi, essi sono inclusi nella relazione e cercano una conciliazione che
li spinge ad andare oltre se stessi, verso un'unità nella quale la
differenza sparisca. Tale unità è la restituzione dell'anima alla sua
essenza perfetta e immortale. È ciò che l'anima, vincolata al corpo,
intende di ripristinare, nonostante che di fatto, ossia
nell'esperienza ordinaria, ciò non possa realizzarsi. Fino a che l'anima
è vincolata al corpo, l'assoluto è intenzionato, ma non
fattualmente raggiunto. L'intentio veritatis, tuttavia, non
rappresenta una pia illusione, ma il senso stesso della vita
dell'anima, il suo perenne ricercare, il suo non appagarsi delle certezze.
Ex-sistere ha il significato dell'uscire dalle tenebre della
caverna per volgersi alla luce della verità. Il coraggio dell'anima
consiste proprio in questa sua capacità di assumersi il compito di
lottare con il limite, che equivale al suo lasciarsi perennemente
sospingere verso una meta che è raggiungibile solo intenzionalmente:
"Questo sopraceleste sito [cioè la pianura della Verità] nessuno
dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo
ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità
soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa" (Platone, Fedro,
247c). Il coraggio consiste per un verso nella rinuncia alla
pretesa di inglobare la verità, per altro verso nella rinuncia alla
pretesa di rinunciare a ricercare la verità stessa: desistere, infatti,
equivale a negare la vita, che è intrinsecamente ricerca. Si configura
così una duplice impossibilità, che mette capo al coglimento del senso
autentico dell'intenzione: l'intenzione di verità è non
solo intenzione di volgersi alla verità, ma è altresì intenzione di affidare
alla verità il proprio volgersi ad essa. È dunque intenzione di verità
come affidamento alla verità, la quale, suscitando la ricerca, la evoca
orientandola e indirizzandola. Il cercante, pertanto, non può che
pro-tendersi al vero, confidando che il vero stesso guidi la sua ricerca»
(La relazione e il valore).
4.1.
Rivelazione
L'atto
intenzionale è quello in cui «il pensiero riconosce la verità, lo
spirito ammutolisce dinanzi alla maestà sovrana della verità»,
scrive Romano Guardini. Per sostenere tale atto, occorre riflettere,
meditare continuamente sulla Verità. Non è occupazione vana quella che
ci fa compiere quello slancio intenzionale. D'altronde solo intenzionale
può essere lo slancio verso la Verità che non si trova al fondo della
strada o della vita, ma in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio.
Scrive
Bruno Forte: «Ciò che sta prima nella conoscenza della fede rivelata
è la Parola: credere è assentire al Verbo uscito dall'eterno Silenzio.
La fede nasce dall'ascolto (Rm 10,17). L'ascolto, però, in tanto è
possibile, in quanto nella storia si è compiuto l'evento della parola che
è il Cristo. L'obbedienza della fede non è che l'ascolto profondo, [...]
l'ascolto di ciò che sta sotto e oltre [...] rispetto alla parola
immediatamente udita. Si accoglie veramente la parola-evento [o
parola-azione] soltanto quando la si ascolta "superandola", le
si "obbedisce", ascoltando ciò che sta oltre e dietro e più in
profondo rispetto ad essa. Chiamando questo "al di là" della
Parola col nome di Silenzio, si potrebbe affermare che la vera accoglienza
della Parola del Cristo è l'ascolto del Silenzio che la supera e da cui
essa proviene. Il "primum et novissimum" della conoscenza della
fede viene così a manifestarsi come "secundum": il Figlio
rimanda al Padre, la Parola al Silenzio, il Rivelato nel nascondimento al
Nascosto nella rivelazione. Il doppio significato di "re-velatio"
emerge qui in tutta la sua densità: nel toglimento del velo c'è un
infittirsi del velo; nell'ostendersi un ritrarsi; nel rivelarsi un
velarsi. L'ascolto credente raggiunge il Rivelato per andare grazie a Lui
e attraverso di Lui verso il Nascosto: l'obbedienza della fede tende a
ciò che sta sotto, dietro la Parola; l'"oboedientia" è ascolto
tutto proteso all'altrove, all'al di là del detto (ob = verso, indicativo
del moto a luogo, oltre che dello scopo, del fine ultimo). La Parola è la
mediazione, il Silenzio è l'altra sponda, la profondità nascosta del
detto, la meta e la patria dell'obbedienza della fede nel Verbo. Senza la
Parola non si darebbe accesso al Silenzio; ma senza il Silenzio la Parola
sarebbe soltanto l'"aperto" di questo mondo, una "Offenbarung"
("manifestazione"), che non rinvierebbe a un altro mondo e a
un'altra patria, perché nell'"aperto" nulla è più nascosto,
tutto è risolto nello svelamento pienamente compiuto. Solo rinviando al
Silenzio la Parola esige l'obbedienza della fede; solo comunicandosi nella
Parola l'al di là del detto è accessibile e provoca la risposta
dell'intenzionalità credente, come apertura del cuore dell'uomo verso le
insondabili profondità di Dio» (Teologia della storia, p. 63).
Tale
intenzionalità deve essere sostenuta: non è possibile non passare almeno
un po' di tempo della giornata meditando (personalmente o confrontandoci
con qualcuno), leggendo testi, magari scrivendo le impressioni o i
pensieri, comunicando in qualche modo su quanto si è meditato.
Non
esistono, poi, testi particolarmente sacri: a volte, una poesia, una frase
di un romanzo, un ragionamento filosofico possono suggerirci pensieri
infiniti, belli, puri, più di qualsiasi testo cosiddetto
"sacro". Si dovrebbe pertanto attingere dovunque sia possibile
ricavarne una qualche utilità spirituale, senza preclusioni di sorta. Lo
afferma il certosino Lanspergio (†
4.2.
Pace interiore
Non
si deve confondere la pace interiore con una tranquillità di vita. La
pace interiore è generata dall'atto di affidamento: non è mai
tranquilla, perché ogni fede poggia sul rischio e mai appagante, perché
la fede non è piena e vera visione. La pace è riposta semmai nella
speranza - "speranza" nel senso di "certezza di cose
future" - che la Verità non può deludere e che il rischio è dunque
solo apparente.
Una
tranquillità (= pacificazione) che rifiuta il rischio non è vera pace e
può essere indizio di un grave autoinganno: «... si trovano persone
che praticano una falsa passività e si astengono da qualsiasi attività.
Si guardano interiormente dai buoni pensieri, affermano di essere arrivati
alla quiete [...]. In costoro abita un piccolo demonio che inibisce tutto
ciò che, in pensieri o in qualunque altro modo, potrebbe distoglierli da
quella pace, all'interno e all'esterno; in tal modo egli lascia che
restino in pace, ma per condurli poi con sé, nell'eterno tormento del suo
inferno. Perciò egli consente loro questa falsa pace. I giusti non hanno
questo modo di agire: essi si esercitano interiormente e all'esterno e
percorrono con pazienza tutte le vie per le quali il Signore li conduce,
nelle tentazioni, nelle tenebre, e non pretendono di essere arrivati alla
pace. Non sono neppure nel turbamento, ma percorrono uno stretto sentiero
tra la pace e l'inquietudine, tra la speranza e l'esagerato timore, la
sicurezza e il dubbio. E quando balena in loro la vera pace, la libertà
dello spirito o la sicurezza, le rituffano immediatamente nel fondo, senza
attaccarcisi» (Taulero, Sermone "Vigilate, quia nescitis horam
quando dominus vester venturus sit").
4.3.
Il rischio ineliminabile
«Ah,
l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico»,
scriveva Eugenio Montale (Non chiederci la
parola che squadri da ogni lato... dalla raccolta "Ossi di seppia"). Non possiamo dirci sicuri e tranquilli. Chi gode
della vita, certo sembra non abbisogni della Verità, o almeno lo fa solo quando non è più in tempo per provvedervi. Ce lo racconta la parabola di
Lazzaro e dell'uomo ricco (Luca 16, 19-31): «C'era
un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si
divertiva splendidamente; e c'era un mendicante, chiamato Lazzaro, che
stava alla porta di lui, pieno di ulceri, e bramoso di sfamarsi con quello
che cadeva dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccargli
le ulceri. Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno
di Abraamo; morì anche il ricco, e fu sepolto. E nell'Ades, essendo nei
tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo
seno; ed esclamò: "Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro
a intingere la punta del dito nell'acqua per rinfrescarmi la lingua,
perché sono tormentato in questa fiamma". Ma Abraamo disse:
"Figlio, ricordati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e
che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e
tu sei tormentato. Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una grande
voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano,
né di là si passi da noi". Ed egli disse: "Ti prego, dunque, o
padre, che tu lo mandi a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli,
affinché attesti loro queste cose, e non vengano anche loro in questo
luogo di tormento". Abraamo disse: "Hanno Mosè e i profeti;
ascoltino quelli". Ed egli: "No, padre Abraamo; ma se qualcuno
dai morti va a loro, si ravvedranno". Abraamo
rispose: "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno
persuadere neppure se uno dei morti risuscita"» (Traduzione della Nuova
Riveduta).
La vita non è
solo divertimento fine a se stesso per chi se lo può permettere (inteso come deviazione, lontananza o distrazione dalla
ricerca della Verità), ma è cosa estremamente seria, di cui essere
responsabili, impegno unico ed irripetibile. Potremmo essere tranquilli
visti che ora siamo in una condizione di benessere? E la nostra tranquillità
ci assicura anche per il futuro?
Mi
è capitato di incontrare una pacificazione interiore apparente (o
sostanziale per alcuni) nel corso della mia vita. Queste persone danno
l'impressione che la loro vita testimoni una sicurezza e una tranquillità
indistruttibili. Sono persone che vivono anche esperienze religiose forti,
consacrati e che non mettono mai in discussione se stessi, i traguardi
raggiunti e soprattutto il loro benessere (che può essere anche
semplicemente di tipo spirituale). Ma io credo che tale non possa essere
l'atteggiamento normale di chi crede veramente e sa che non si può dire
come Gesù sulla croce: «Tutto è compiuto» (Gv 19, 30; cfr. anche più
avanti al numero 6.3). La stessa fede
che ora può sostenerci, lo farà anche in momenti peggiori, in situazioni
gravose? La nostra è una fede
a rischio, essendo un atto umano e non divino. Se è fede, non è visione chiara e pertanto il rischio c'è,
nonostante tutte le rassicurazioni, soprattutto dinanzi ad eventi che
esigono risposte non usuali. La fede incrollabile è una vera e
propria credenza ingenua, al pari di tante altre banali questioni
dell'esistenza. Non è quella che Dio esige da noi, quanto piuttosto un atteggiamento
onesto di chi, pur nell'abbandono fiducioso, sa di non essere sicuro
sempre e comunque e che il rinnegamento è a un passo dalle prime
difficoltà.
Enzo
Bianchi scrive a proposito del rischio della fede ("La fede è un
rischio", Micromega 2 (2000), 75-84): «Anzitutto va detto
che parlare della fede non significa parlare di Dio. La fede è un
atto umano, umanissimo, che suppone una determinata comprensione di Dio,
delle immagini del Dio a cui ci si affida. Altro è Dio, altra è la fede
in Dio. [...] La fede cristiana è un rischio. Che a volte la fede
cristiana sia stata o venga colta come "rassicurante" oppure sia
stata o venga vissuta come riserva di certezze e come
"rassicurazione", fino al punto da esser declinata come
arroganza, pretesa e perfino come violenza, questo non toglie che la sua
configurazione autentica, che trova nella fede di Gesù stesso il
suo paradigma e il suo fondamento, è una fede non identificabile con una
bacchetta magica e totalmente estranea a una sicurezza che toglie il
dubbio o esime dalla ricerca. Anche Gesù, sulla croce, non ha visto
rimosso da sé una dimensione di enigma, di incomprensibile. Un drammatico
"Perché?" ha traversato la sua relazione con Dio: "Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34; Mt 27,46). La
fede, in questo senso non può essere fatta giocare contro la ragione di
cui la postmodernità avrebbe mostrato i limiti e le manchevolezze. Anche
la fede, in realtà, non rimuove l'enigma e non rende tutto trasparente.
"Anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore,
ma piuttosto una strada - insieme con Dio - che lo attraversi. Le tenebre
non sono l'assenza, ma il nascondimento di Dio, in cui noi - seguendolo -
lo cerchiamo e lo troviamo nuovamente" (E. Schichardt). È indubbio
che la fede suscita una sicurezza, una certezza, ma questa non è dello
stesso ordine della sicurezza razionale o filosofica: mai si tratterà di
una sicurezza acquisita a partire da se stessi o al termine dei propri
ragionamenti, ma di una fiducia che si pone in un altro da sé, anzi
nella sua promessa. L'espressione "io so in chi ho messo la mia
fiducia" (2Tm 1,12), mostra che la "certezza" della fede è
tutta interna al rischio della fede, al suo movimento
"estatico", al suo essere un'uscita da sé per affidarsi a Dio.
Il credente trova la sua stabilità in tale movimento, che è rischio
mortale: "Se non crederete non avrete stabilità" (Is 7,9). Ma
che è anche il "bel rischio" di cui parla Clemente di
Alessandria (Protrettico X,39) riprendendo l'espressione platonica
(Fedone, 114d). E anche qui la bellezza di questo rischio trova la
sua attestazione degna di fiducia nel rischio che Gesù stesso ha vissuto,
secondo i Vangeli, giocando la totalità della sua esistenza nella
dedizione a Dio e agli uomini. È la bellezza del rischio mortale della
fede che echeggia le parole evangeliche: "Chi cercherà di salvare la
propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà" (Lc
17,33). Senza questa dimensione, la fede viene soffocata in una sorta di
"sistema assicurativo" e perde la propria vitalità, il proprio
carattere di avventura e di novità, proprio perché troppo ingessata
nelle proprie certezze da difendere o da imporre ad ogni costo. Senza una
reale dimensione di rischio, di provvisorietà, di precarietà (parola da
cui significativamente deriva "preghiera"), fidarsi di Dio
diventa solamente un gioco di parole. E vorrei insistere sul fatto che la
fede cristiana è fede nella resurrezione, non nell'immortalità: essa
cioè attraversa tutta la tragicità della morte».
5.
Dove abita la Verità
"Chiesero
all'Amico dov'era il suo Amato. Rispose: Lo troverete nella dimora più
nobile tra tutte le cose nobili create; lo troverete nel mio amore, nei
miei desideri e nei miei pianti (RL, 24).
"Dissero
all'Amico: Dove vai? Vado dal mio Amato. Da dove vieni? Vengo dal mio
Amato. Quando tornerai? Starò con il mio Amato. Quando starai con il tuo
Amato? Fino a quando staranno in lui i miei pensieri" (RL, 25).
Per
trovare la Verità non serve uscire di casa o da noi stessi. La Verità è
molto più vicina a noi di quanto pensiamo. Il luogo per eccellenza è
ciò che viene chiamato cuore, o interiorità, o intimità. È un luogo
veramente privilegiato, in cui a ciascuno è dato di conoscere e
sperimentare la Verità e l'Amore. Inviolabile, impenetrabile, immutabile:
è il luogo per antonomasia. Ed è santo.
«La
tradizione spirituale della Chiesa insiste [...] sul cuore, nel
senso biblico di "profondità dell'essere" (Ger 31,33), dove la
persona si decide o no per Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
368). La parola cuore esprime l'unità profonda, sostanziale
dell'uomo la quale è originaria per rispetto ai due distinti principi di
cui l'uomo si compone (anima e corpo, spirito e materia). «L'unità
dell'anima e del corpo è così profonda che si deve considerare l'anima
come la "forma" del corpo; ciò significa che grazie all'anima
spirituale il corpo composto di materia è un corpo umano e vivente; lo
spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro
unione forma un'unica natura» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
365). La parola cuore non è una semplice metafora per esprimere
questa realtà totale, ma ne è il simbolo reale, nel senso che è quella
realtà nella quale lo "spirito" si esprime.
Un
vangelo apocrifo riporta le seguenti parole: "Se coloro che vi
dirigono vi dicono: Ecco il regno di Dio è in cielo! Allora gli uccelli
del cielo vi precederanno. Se vi dicono: È nel mare! Allora i pesci del
mare vi precederanno. Il segno è invece dentro di voi e fuori di voi.
Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i
figli del Padre che vive. Ma se voi non vi conoscete, allora sarete nella
povertà, e voi sarete la povertà" (Vangelo copto di Tomaso, 3).
È
scritto nel Vangelo di Luca: "Il regno di Dio non viene in maniera
che si possa osservare, né si dirà "Eccolo qui" o "Eccolo
là": poiché, ecco il regno di Dio è dentro di voi" (Luca 17,
20-21).
5.1.
Il Santo di ogni luogo
Ma
non basta fermarsi qui: bisogna passare dal luogo santo al Santo di
ciascun luogo. Non serve ritornare in se stessi, riflettere, pensare, ma
occorre che tutti i nostri pensieri riposino nella Verità, nell'unico
Pensiero che rende possibile il nostro pensare. "Non uscire fuori di
te, ritorna in te stesso; nell'uomo interiore abita la verità e, se
troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma
ricorda, quando trascendi te stesso, che trascendi l'anima razionale:
tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che
cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità?
Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa
che cercano quanti usano la ragione" (Agostino, De vera
religione, 39.72).
Più
avanti [cfr. punto 9] si dirà meglio di
come l'interiorità dell'uomo (o intimità, preferibilmente) è anche la
sua trappola. Se è vero dunque che la Verità non va cercata fuori di
noi, ma dentro la nostra intimità, è anche vero, come afferma
Giovanni Romano Bacchin che «se l'uomo è in quanto tende, non in se
stesso egli si trova, ma nel non trovarsi». Appare solo in
superficie la contraddizione del percorso: l'uomo deve cercare la Verità
non verso l'esterno, ma dentro di sé. Ma la propria natura è
contraddittoria, come dice Agostino, confusa e mutevole. Allora è
necessario il passo successivo, che è quello di trascendere nuovamente se
stessi, negando la propria natura e rivolgendosi a Colui che non muta.
Questo percorso, come scrive Emanuele Severino, si deve svolgere tutto
all'interno della Verità (cfr. punto 2.1):
altrimenti, non sarebbe un percorso vero e non vi condurrebbe mai. Tale
dinamica, inoltre, si deve notare come sia comune a tutte le
vocazioni spirituali, non essendo esclusivo del cristianesimo. In tante
mistiche si può trovare il senso del distacco dalle cose del mondo
presente e perfino del mondo a venire. Se si fa riferimento al Sufismo,
ad esempio, si trovano pagine splendide in cui il distacco non è limitato
alle sole cose terrene, ma anche a quelle ultraterrene, al cosiddetto premio
o paradiso. Chi ama Dio veramente e la Verità dunque non può che
desiderare Dio solo, togliendo tutto il resto. E arrivare perfino a
pensare come Eckhart, chiedendo a Dio di liberarci anche del desiderio a
Lui rivolto.
6.
Realtà e Verità
"Due
sono i fuochi che mantengono vivo l'amore dell'Amico: l'uno è fatto di
desideri, gioie e meditazioni; l'altro di timore, struggimento, lacrime e
pianti" (RL, 45).
Non
possiamo "sottrarci" veramente all'esistenza. Qualunque atto o
volontà prodotti in questa direzione, finirebbero per confermarla,
inevitabilmente. Poiché non è possibile togliere di mezzo, annullare la
realtà dei fatti per mezzo di un altro fatto. Non resta da pensare che,
invece, è proprio l'esistenza (questo star fuori rispetto alla Verità) a
rendere realizzabile l'accesso al Vero, ad aprire per tutti le sue porte
maestose.
La
Verità, così come l'Amore, si comunica attraverso l'esistenza e non a
prescindere da essa; si rivela nei fatti che la compongono, in quegli
accadimenti che scorgiamo e in tutti gli altri eventi di cui spesso non ci
rendiamo neppure conto. La Verità, pertanto, non si manifesta soltanto
nella bellezza, nel piacere, ma anche nello struggimento, nel dolore - pur
senza confondervisi -. Tutto viene svelato, il buono e il cattivo
dell'esistenza, dalla presenza dell'Amore nella vita, presenza che
contiene e sostenta ogni realtà particolare, visibile ed invisibile.
L'Amore,
così come la Verità, è veramente diffusivo.
6.1.
Visibilità del Vero
Scrive
Agostino: "La vita stessa si è resa visibile alla carne e si è
posta nella condizione di essere veduta, affinché quelle cose che possono
essere vedute solamente dal cuore venissero vedute anche dagli occhi per
poter guarire i cuori. Colui che ha fatto il sole è prima del sole, è
prima della stella del mattino, prima di tutti gli astri, prima di tutti
gli angeli: egli è il vero creatore, "in quanto tutto è stato fatto
per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto"; ebbene,
affinché potesse essere visto con quegli occhi della carne che vedono il
sole, egli pose la sua dimora nel sole, ossia mostrò la sua carne nella
manifestazione di questa luce" (Commento alla Prima lettera di
Giovanni, Discorso 1, nn.1-2).
6.2.
Esperienza del Vero
«È
dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di
gioia e il sentimento paziente di un'opera che cresce, di tappe che si
susseguono, aspettate con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché
la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne» (Emmanuel
Mounier). Commentando questa frase, Luigi Giussani scrive: «La
condizione di un passaggio dal discorso all'esperienza o ad un'esperienza
più profonda e più vasta, ad una minor fragilità nell'impatto con la
realtà è una fatica reale nel prendere sul serio il
"discorso". Ciò consiste nella traduzione in nesso con la
realtà - in esperienza - dell'ideale, intendendo con ideale il contenuto
del messaggio che ci ha colpito in un incontro e che, nella storia ha un
nome, Cristo. Se l'incontro iniziale non avesse questo contenuto, la
nostra fedeltà ad esso sarebbe uno sforzo che esaurisce. La traduzione in
esperienza dell'ideale è il diventar carne e ossa, tempo e spazio. Questo
è il punto reale della fatica: che diventino "vita" la stima e
l'affezione a Cristo, che diventi esistenza l'amore a Cristo. La verità
è ciò che ci è stato annunciato, Gesù Cristo, in cui tutto consiste.
Ma soltanto se la verità nasce dalla carne c'è un parto pieno di
letizia, la vita diventa feconda, un'opera che cresce nella pazienza -
questa forza suprema e sublime dell'uomo che ha un ideale. Che la verità
nasca dalla carne vuol dire che Cristo sia testimoniato e reso visibile
dal nostro modo di alzarci al mattino, perché la carne è l'alzarsi al
mattino; dal nostro modo di intrattenere i rapporti con gli altri, perché
la carne è il modo di vivere i rapporti; dal nostro modo di andare a
scuola o al lavoro, perché la carne è la strada che quotidianamente
bisogna percorrere. Che la verità nasca dalla nostra carne significa che
Cristo determini un cambiamento in noi che Lo riveli presente: un
cambiamento nel rapporto con la persona amata, nel modo di guardare a sé,
di sentirsi fluire dentro l'attaccamento all'esistenza, oppure di
percepirsi tutti tremanti, nel modo di stancarsi o annoiarsi, nel modo di
guardare al proprio passato e all'azione compiuta, o a questo presente,
che sarebbe, di per sé, pieno di uggia, di aridità, di deserto, di
niente. La verità che nasce dalla carne è un cambiamento di tutto ciò,
perché non si comprende e non si arriva a Cristo se non dal di dentro di
tale cambiamento. La presenza di Cristo qui ed ora è sperimentabile in e
attraverso questi cambiamenti. Cristo è presente dentro il cambiamento
della nostra carne, cioè della nostra umanità concreta. La sua potenza,
la potenza della Sua presenza, è dentro l'esperienza presenti di un
cambiamento, che è come un parto, cioè un'esperienza di generazione
nuova, un'opera che cresce, fino a diventare una storia che rimane» (Appunti da una conversazione con un gruppo di
universitari, febbraio
1989).
6.3.
La storia trasformata
Non
è che nell'esperienza umana che la Verità diventa visibile: nell'atto di
affidamento alla Verità, la vita cambia, la storia si modifica, anche se
non in modo eclatante, ma solo impercettibilmente e di questo ci si rende
conto forse soltanto a distanza, mediante uno sguardo retrospettivo. Tale modifica non
prende la forma classica di una felicità terrena, ma acquisisce un
aspetto diverso: nelle trame della vita è in qualche modo riscontrabile
che la Verità ha compiuto la sua Opera. Il cambiamento è lento, la
modifica non è subitanea: è un parto, che ha i suoi tempi e le sue
attese. Il sentimento paziente che l'accompagna è essenziale alla sua
realizzazione, al suo compimento. È una fatica reale, perché la Verità
- che non è di questo mondo - si incarni nell'esistenza degli uomini, di
ciascuno. Non occorre dunque abbandonare la realtà, ma rinnovarla con la
fede nel Vero: credendo, la storia si trasforma. Ciò che sembra incerto
diventa pieno di speranza e lucido; ciò che appare rovinoso agli occhi
del mondo è conquista . La fede è attesa fiduciosa che la Verità si
compia in tutti. È vedere, oltre il limite del visibile, che la storia
umana diviene qualcosa di diverso dal presente o da ciò che è stato e
che si apre verso un futuro denso di significato. È speranza che diviene
realtà, finalmente.
Il
risultato di tale presenza non è facilmente e comunque visibile.
Pertanto, la difficoltà nel trovare la Verità nella vita è quella di
non poter essere di-mostrata. Forse non è completamente vero quello che
scrive Luigi
Giussani a proposito della verifica del risultato. Si parla di un parto,
pieno di dolore, che porta alla luce un'opera, una creatura. A volte
capita che una madre muoia prima di vedere con i suoi occhi il bambino che
ha generato. Così, spiritualmente, può capitare che una persona non
riesca a vedere la tangibilità della sua fede, l'opera che la Verità ha
compiuto nella persona che a lei si è affidata nell'atto intenzionale. Il
compiersi dell'opera della Verità è questione che non ci appartiene. Non
possiamo noi tutti dire ciò che ha detto Gesù Cristo, nell'ultima sua
ora: "Tutto è compiuto". Non abbiamo questa coscienza che
supera ogni capacità umana. Spesso l'equivoco più grande è quello di
aspettare un risultato, quando non è avvenimento necessario ed
indispensabile alla fede (cfr. sopra al numero 4.3).
Qui
si comprende il senso del distacco, come capacità di accettare il buono e
il cattivo dell'esistenza (il risultato visibile, ma anche il non
risultato o comunque non immediatamente visibile) senza enfasi
particolare, ma nello spirito del servizio alla Verità. Se la Verità ha
deciso che non dobbiamo attenderci risultati, questo è da accettare
comunque. Non ci deve far perdere la fede e la speranza che la Verità
operi comunque e forse più intensamente in quelle creature che,
affidandovisi in maniera totale, non devono, grazie al distacco raggiunto,
attendere verifiche concrete all'opera della loro fede. Si aspettano
soltanto che la Verità si compia, nei modi e nei tempi a lei propri, non
con le nostre modalità e non necessariamente nel tempo che ci è dato
vivere.
7.
Solitudine interiore
"Solitudine
voleva l'Amico, e se ne andò a vivere solo per stare in compagnia del suo
Amato. E con lui sta solo tra la gente. (RL, 46).
La
paura della solitudine è paura di incontrarsi con la Verità. Vivere la
solitudine, intesa non necessariamente dal punto di vista fisico,
significa approfondire il mistero di noi stessi e quindi la Verità della
vita. Spesso il nostro bisogno di stare insieme alle persone significa
solo mascherare la paura di scoprirsi inadeguati nei confronti della
Verità. Lo stare assieme assolve allora la funzione unica di distrarre la
nostra attenzione dal Vero.
Scrive
Miguel de Unamuno: "Si cerca la compagnia, la società niente altro
che per sfuggire a se stessi, e così, fuggendo ciascuno da sé, non si
incontrano mai gli uomini e parlano fra loro non come uomini, ma come
ombre, come miserabili spettri. Gli uomini non parlano insieme, non
conversano se non nei momenti di debolezza e di abbandono, come vuotandosi
allora di sé, ed ecco perché non sono mai più soli di quando sono
insieme, né più in compagnia di quando sono separati, divisi gli uni
dagli altri" (Essayos, vol.VI).
7.1.
La Verità e l'Uno
La
solitudine non deve essere "sopportata", ma vissuta pienamente
come un dono che ci fa essere più vicini al Vero. Dio, infatti, è Uno.
Ed essendo Uno è perfettamente solo. Ad imitazione del Dio Uno, è
importante vivere l'esperienza della solitudine come dono profondo di
comunione con l'Uno. D'altronde, in fondo a tutte le esperienze più vere
della vita permane una solitudine che ci mette a confronto con noi stessi
e pertanto con la Verità. Nessuno, inoltre, può entrare fino in fondo in
decisioni e in ambiti che sono e devono rimanere riservati al singolo.
Quindi, lungi dal ritenerla una maledizione, ogni solitudine (anche quella
cercata) può essere un'occasione per coltivare la parte più nobile della
persona. Non ci si può sottrarre a tale invito.
7.2.
Comunicare l'esperienza
D'altro
canto, ogni esperienza profonda deve anche essere comunicata. Non si può
tacere la Verità. La Verità non ama essere celata. Il termine stesso
greco di Verità (alétheia) indica il suo "non essere
nascosto" (cfr. paragrafo 1.1).
La Verità coltivata in solitudine ha bisogno dunque di
trovare un ambito in cui sia possibile comunicarla, confrontando le varie
esperienze (sempre relative) per giungere ad un arricchimento, essenziale
a rendere vera la vita.
Il
problema più difficile da risolvere è proprio trovare un ambito
privilegiato in cui sia possibile fare ciò. È vero che esistono molte
comunità di vario livello (religiose, laiche) e molteplici iniziative che
partono quasi sempre dal carisma di un fondatore o ispiratore che ne
determina il percorso. Basta sfogliare repertori delle associazioni o
comunità religiose per rendersi conto della vastità dell'offerta. Ma
questo, a parer mio, soltanto in superficie. In realtà ogni associazione
ripete il clichè usuale: più che essere ricercatori di verità in quegli
ambiti, si finisce quasi sempre per difendere le verità acquisite o
conquistate o di riferimento. In quegli ambiti si tende a difendere il già
dato piuttosto che ricercare il non ancora.
In
questo modo, le molteplici
esperienze che si possono realizzare in realtà sono soltanto
un'esperienza unica ripetuta in vari ambiti. Si ripetono le stesse
dinamiche di gruppo, le stesse affermazioni (a meno di sfumature che non
differenziano più di tanto la sostanza dell'esperienza comune a tutti) e
si finisce prima o poi, chi è nella seria intenzione della ricerca della
verità, per rimanere delusi profondamente. Credo sia giunto il momento di
ripensare radicalmente le esperienze dei movimenti o delle associazioni,
in particolar modo laicali, che non hanno alcun merito se non quello di
riportare all'ovile alcune pecore smarrite, prediligendo il numero alla
qualità, l'assemblea alla solitudine, gli impegni alla riflessione, le
risposte alle domande. Le stesse domande che invece si pone Enzo
Bianchi (Editoriale, in Parola Spirito e Vita 1997, n.1,
dal titolo "Cercare Dio"): «Il tema del quaerere Deum
[cercare Dio] mi conduce a formulare una domanda alle
comunità cristiane: sanno essere luoghi di ricerca di Dio? Sanno
trasmettere l'arte della ricerca di Dio attraverso l'approfondimento
delle Scritture? Sanno insegnare l'arte del discernimento grazie a cui
si può riconoscere la presenza del Signore nel quotidiano? Sanno
iniziare alla ricerca di Dio nella preghiera? Sanno essere spazi di
ricerca di Dio nella carità, nell'incontro con il fratello? E nella
Chiesa si lascia lo spazio e la libertà necessari allo studio e alla
ricerca teologica? Dire che il Dio cristiano dev'essere cercato
significa che ad esso e su di esso possono e devono essere poste
domande. E questo non deve far paura! Dovrebbe spaventare maggiormente
l'atteggiamento di chi ha sempre risposte pronte per ogni domanda...
L'evangelizzazione, che oggi si scontra con una maggioranza di
indifferenti, deve saper far fronte a quanti - e non son pochi - si
interrogano con serietà sulla fede, magari ricominciando, dopo molti
anni di lontananza, ad accostarvisi. Sanno, le comunità cristiane, far
fronte alle richieste, spesso esigenti, di questi cercatori di Dio? E
soprattutto, sappiamo noi tutti rispondere all'attesa di Dio che va in
cerca di adoratori in spirito e verità (cf. Gv 4, 23)?»
7.3.
Dinanzi all'Infinito
La
paura della Verità è atterrimento di fronte all'infinità (silenzio
eterno, spazi incommensurabili). Dinanzi all'illimitato, l'uomo è colto
da un senso di vertigine, preso da una realtà immensa che lo avvolge.
"Quando considero la piccola durata della mia vita inghiottita
nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e
anche quello che vedo perduto nell'infinita immensità degli spazi che
ignoro e che mi ignorano, mi atterrisce e mi stupisco di vedermi qua
piuttosto che là, perché io sia oggi piuttosto che allora. Chi mi ci ha
messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo sono
destinati a me?" (Blaise Pascal, Frammenti, 68).
Scrive
Rocco Parolini (Ascesi pascaliana, anelito di felicità, in Rivista di
Ascetica e Mistica, 1998 (67), n. 1): "La più diffusa reazione a
questo capogiro è il divertissement: la maggioranza degli uomini
volge altrove i suoi pensieri, per fuggire la riflessione esistenziale. Ma
questa non è, secondo Pascal, la via giusta verso la felicità: il divertissement
(qualunque forma esso assuma) impedisce la crescita spirituale del
soggetto, perché è solo una tecnica di occupazione del tempo, con
l'unico, vero fine di rimuovere le domande esistenziali. A questo scopo,
tutto ciò che distoglie dalla riflessione sul senso della vita può
tornare utile: la ricerca scientifica, la carriera politica, il gioco, la
musica... tutto questo, se precede e zittisce quelle domande, è divertissement.
Si tratta di un circolo vizioso che, per sfuggire all'angoscia, rinuncia
alla felicità e approda all'inquietudine cronica. La vita diviene
un'altalena di piaceri e afflizioni passeggeri che si alternano senza
senso". "Ma non è forse essere felici il poter essere
rallegrati dal divertissement?" (Blaise Pascal, Frammenti,
132). "No; poiché viene da un altro luogo e dal di fuori; e quindi
è dipendente e, in ogni caso, soggetto ad essere turbato da mille
accidenti che rendono le afflizioni inevitabili [...]. La sola cosa che ci
consola dalle nostre miserie è il divertissement. E tuttavia è la
più grande di tutte le nostre miserie. È lui infatti che ci impedisce
principalmente di pensare a noi stessi e fa sì che ci perdiamo
insensibilmente. Senza di lui saremmo nella noia, e questa noia ci
spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne, ma il divertissement
ci distrae e ci fa arrivare insensibilmente alla morte" (Blaise
Pascal, Frammenti, 414).
8.
La fede che conforta
"L'Amico
temette che il suo Amato l'abbandonasse nel bisogno. E l'Amato disamorò
l'Amico. Dolore e pentimento ne ebbe l'Amico in cuor suo; e l'Amato
risvegliò speranza e carità nel cuore dell'Amico e nei suoi occhi
lacrime e pianti, perché tornasse in lui l'amore" (RL, 49).
La
fede nel Bene, nel Vero non è mai riposta inutilmente. Il maggior
beneficio viene a chi crede e non alla Verità, inattaccabile dalle nostre
convinzioni. Chi non crede è traditore, anche se in cuor suo si sente
tradito. Il pianto vero è ritrovare il senso delle cose: non è la
Verità ad abbandonarci, ma siamo noi a far finta che non esista, privando
così noi stessi della sua consolazione, del suo Bene infinito. La fede
non è mai senza conforto. Il conforto non è altro che la consapevolezza
che l'amore di Dio non verrà mai meno, che è sempre compagno della
nostra vita, che la fede si apre alla speranza che un giorno tutto sarà svelato e
sarà dunque possibile vivere pienamente quell'amore ora soltanto
promesso, accennato, intuito.
«La
fede riposa nella luce dell'intelletto, la speranza nella potenza
ascendente, che sempre tende verso ciò che è più alto e più puro: la
verità. Questa potenza è così libera e tanto rivolta all'alto, che non
può sopportare costrizione alcuna. Il fuoco dell'amore invece riposa
nella volontà» (Meister Eckhart, Sermone "Gioite nel
Signore, gioite sempre").
8.1.
Quotidianità della fede
La
fede non ha necessità di gesti clamorosi, di atti fenomenali per
sostenersi: si nutre soltanto di perseveranza nella storia di ogni giorno.
Spesso la tentazione di metterla alla prova in manifestazioni eclatanti e
non invece nell'umile e paziente fatica quotidiana - nascosta magari agli
occhi della moltitudine -, è tentazione potentemente diabolica.
Non
c'è legame di continuità fra fede ed opere e fra opere e santità. Fede
è sempre assentire alla Verità. Non fede che qualcosa di particolare
accada, ma fede nel Bene che accade da sempre. Gli Ebrei usavano il
termine "dabar" per indicare la Parola di Dio, che andava
creduta. Dabar è parola, ma significa anche azione, evento,
storia; infatti, la parola di Dio agisce - e si fa evento che incide nella
storia - nel momento stesso in cui viene pronunciata: si dice che è
parola efficace. Per mezzo della parola (dabar) fu fatto il cielo,
la terra e quanto contiene. Ogni promessa (= parola) di Dio viene
mantenuta.
Pensando,
per analogia, tale discorso per l'uomo, chi crede opera già per il solo
fatto di credere. Spesso la fede più grande - ammesso che si possa fare
una valutazione quantitativa - è quella che non opera che se stessa, fede
nuda esposta ad ogni rischio, umano e divino, ferma nell'intenzione di
immergersi nelle profondità abissali della Verità.
8.2.
Fede ed opere
Il
difficile rapporto fra fede ed opere risulta essere essenziale alla
comprensione del senso globale della vita. Infatti, se le opere giudicano
la fede (Giacomo 2,18), non è sempre e comunque vero nella storia di
molti uomini spirituali. La fede non può essere sostenuta dalle buone
opere. O meglio, non può la fede (invisibile) essere sostenuta da
risultati (visibili). Non si può essere sicuri che, almeno per il breve
tempo della nostra vita, si verifichino risultati concreti a supporto di
quanto si crede . In tal modo, pur se la fede ne risulta rafforzata,
mancando il risultato visibile, non per questo la fede deve crollare. La
fede sostiene il formarsi delle opere e non viceversa. Senza fede, ogni
opera è attività umana senza futuro e senza Verità. Con la fede,
indipendentemente dalle opere realizzate, ogni creazione (non
necessariamente percepibile con i limiti spazio-temporali) diventa
partecipazione all'opera più grande del Creatore. La fede è dunque come
un'energia positiva che, penetrando la realtà apparente, la trasforma,
prima o poi, in realtà Vera.
Scrive
Giovanni della Croce: "Quelli che sono molto attivi e che pensano
di abbracciare il mondo con le loro prediche e con le loro opere esteriori
ricordino che sarebbero di maggior profitto per la Chiesa e molto più
accetti a Dio, senza parlare del buon esempio che darebbero, se
spendessero almeno la metà del tempo nello starsene con Lui in
adorazione. Certamente allora con minor fatica otterrebbero più con
un'opera che con mille per il merito della loro orazione e per le forze
acquistate in essa, altrimenti tutto si ridurrà a dare vanamente colpi di
martello e a fare poco più che niente, talvolta anzi niente e anche
danno. Dio non voglia che il sale diventi insipido, poiché allora
quantunque sembri che produca all'esterno qualche effetto buono, di fatto
non fa niente, essendo certo che le buone opere non si possono fare se non
in virtù di Dio" (Cantico Spirituale B, Strofa 29,3).
9.
Fra Cielo e Terra
"Il
cuore dell'Amico volò verso le vette dell'Amato, per non avere
impedimenti ad amare nell'abisso del mondo. E quando fu con l'Amato lo
contemplò nella gioia; e l'Amato lo fece scendere nel mondo perché lo
contemplasse nella pena e nella tribolazione" (RL, 56).
Due
sono i momenti, solo apparentemente contraddittori, in cui la presa di
coscienza decide il destino dell'uomo:
L'uomo
è in quanto tende ad altro:
"La profondità che l'uomo crede di trovare nel ripiegarsi e nel
contemplarsi è il rischio dell'equivoco nel pensare umano: se l'uomo è
in quanto tende, non in se stesso egli si trova, ma nel non trovarsi"
(Giovanni Romano Bacchin, Su l'autentico nel filosofare). Questa è la dimensione
- o momento - dell'estasi, ossia dell'uscita da se stessi nella tensione
verso la Verità, sorgente del Bene e della Luce;
L'uomo
non può rinunciare definitivamente a se stesso:
"L'uomo, nella sua singolarità, si trova nell'impossibilità di
rinunciare autenticamente a se stesso, perché l'eventuale sua rinuncia lo
accompagnerebbe in ogni altro stato: la rinuncia che il singolo fa di sé,
perdendosi nell'anonimia, lo accompagna come sua rinuncia, come
singolarità, paradossalmente e negativamente, in ogni momento di tale
anonimia" (Giovanni Romano Bacchin, Idib.).
9.1.
Inevitabilità dell'esistenza
La
tensione verso l'innegabile (= la Verità) non ci toglie dall'inevitabile
(= la vita). I due piani sono da tenere presenti entrambi, essendo
irriducibili. Questo definisce meglio quanto accennato in precedenza per
quanto riguarda il rapporto tra Verità e Realtà. Infatti, se la Verità
si comunica nel reale (umana esperienza) è altrettanto vero che non si
risolve in esso; ossia, non può confondersi la Verità (innegabile) con
la realtà (inevitabile). La Verità è anche senza realtà: proprio in
ragione di ciò è Verità assoluta.
In
altri termini (psicoanalitici), poiché non è possibile rinunciare
totalmente a se stessi nella ricerca di Verità, tale desiderio (per
quanto nobile e affatto ordinario e dunque inscrivibile nella categoria
dei bisogni) è fortemente narcisistico: cercare la Verità (l'Amore) è
desiderare che l'Amore ci ami, ci voglia bene, ci desideri a sua volta
(non ci rivolgeremmo a chi pensiamo ci possa rifiutare o non si interessi
a noi). Potrebbe, a prima vista, sembrare un paradosso: se nella ricerca
del Vero occorre umiltà, il narcisismo, ossia il desiderio di essere
lodato e benvoluto, si inserisce come estraneo alla sincerità della
ricerca. Ciò è solo in parte vero: infatti, il narcisismo inteso come
desiderio di essere lodati è estraneo all'umiltà soltanto nella
concezione cristiano-cattolica. L'amore di sé nella Bibbia non è mai
associata al peccato. Scrive Klaus Berger: "Il Nuovo testamento non
solo presuppone l'amore di sé, ma fa continuamente appello al proprio
interesse. Questo è e rimane un punto centrale, su cui fa leva il
messaggio di Gesù. Levitico 19,18 non abolisce l'amore di sé, bensì ne
fa la misura della giustizia. L'autore presuppone che l'amore di sé sia
una forza potente. Non lo rimuove, ma costruisce su di esso. Il programma
non è quello di rinnegare, ma di conciliare. Questo significa: si aspira
a una società in cui l'attore interpellato "emerga" anche
personalmente" (Psicologia storica del Nuovo Testamento).
9.2.
Già ma non ancora
In
senso proprio, la Verità non è né fuori né dentro di noi: il mistero
della sua presenza nella nostra vita sta in una formula: già, ma non
ancora. Ossia è già in noi (come "mancanza"), anche se non vi
è ancora totalmente (come "pienezza"). L'uomo, nella sua vita,
ha il compito unico di accorgersi che manca di Verità e, proprio perché
è mancante, viene sospinto alla sua ricerca. La Verità, che abita il
mondo, pur non essendone parte, attende chi la cerca con tutto il cuore,
direbbe Raimondo Lullo. La Verità, direbbero i filosofi, si impone
indipendentemente dal mondo.
9.3.
Ascoltare il silenzio
Scrive
Bruno Forte: "Ascoltare il silenzio, accogliendo la Parola, è
tutt'altro
che catturare la Trascendenza nelle maglie dell'immanenza, di quanto cioè
è disponibile e certo: significa, anzi, aprirsi radicalmente
all'insondabile novità di Dio [...] senza peraltro esaurirne la
comprensione e l'intelligenza possibile. Chi ascolta il Silenzio [...] vive nella tensione fra il rivelato e il nascosto, fra il già donato e il
non ancora promesso. Lungi dall'essere arrivato (comprehensor),
l'ascoltatore del Silenzio di Dio lungo i sentieri dischiusi dalla Sua
Parola è per eccellenza un pellegrino (viator): la Trascendenza
resta per lui alta e sovrana, alterità incatturabile del Dio nascosto
nella rivelazione e rivelato nel nascondimento" (Teologia della
storia).
10.
Gioia Profonda
"Chiesero
all'Amico che cos'era la gioia. Rispose: la sofferenza sopportata per
amore" (RL, 65).
Gioia
non è la stessa cosa di felicità o piacere: spesso si equivoca. La vera
gioia è riposta in una certezza: l'essere da sempre amati. Questa è la
nostra Origine, infinita come lo sarà il nostro Destino. E tale deve
essere la nostra speranza di giungervi.
La
gioia è amore della Verità, amore che non può mai venire deluso e
quindi che non è mai riposto invano. In questa certezza della Verità,
che è Bene Infinito e Amore senza sosta, ogni dolore sopportato si compie
come un passaggio nel Bene. "Il momentaneo, leggero peso della nostra
tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria,
perché noi non posiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle
invisibili" (2 Corinzi 4,17).
10.1.
Disagio esistenziale
Il
passaggio inevitabile attraverso la sofferenza - non riducibile ad un
momento, ma intesa come disagio esistenziale, poiché tutta la vita è una
lotta senza riposo - può assumere il significato che non siamo fatti
totalmente per questo mondo e il nostro termine ideale, il nostro destino
è ben più grande di quanto possiamo immaginare. "L'anima è fatta
per un bene così grande ed alto, che essa non può in alcun modo trovare
riposo, ed è sempre infelice, finché non giunge, sopra ogni modo, a quel
bene eterno che è Dio, per il quale essa è fatta" (Meister
Eckhart,
Sermone "Gott hat die Armen").
Che
la felicità non sia uno stato duraturo è ciò che viene avvertito dal
cuore. Scrive Emanuele Severino: «Più si è felici, più si teme
di perdere la felicità. Il timore diventa incubo quando si è in possesso
di tutto, fuorché della sicurezza di non perdere il tutto posseduto. Al
culmine della felicità prodotta dalla prassi scientifica, si ripresenta
inevitabilmente l'esigenza della "verità definitiva", come
esigenza suprema di stabilire in modo definitivo e assoluto
l'impossibilità di perdere la felicità raggiunta» (Essenza del
nichilismo, p. 324).
Ma
è anche scritto: "Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai
con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore,
perché io portavo il tuo nome, Signore" (Geremia 15,16). Questo può
significare soltanto che occorre cercare la felicità che non muore e che
tale felicità (gioia e letizia del cuore) è essere raggiunti dalla
Parola di Verità, che illumina la nostra esistenza di lotte e sacrifici.
10.2.
La vita è una lotta e una croce
Che
la lotta sia parte integrante della vita, lo scrive
Charles de Foucauld, in una lettera datata 24 novembre 1910:
«La vita
è una lotta e una croce. Sarà così fino alla fine del mondo. Il grano
buono sarà incessantemente mescolato alla zizzania, i pesci buoni ai
cattivi. Preghiamo, soffriamo, lavoriamo affinché sia santificato il Nome
di Dio, venga il suo Regno, sia fatta la sua Volontà, e ogni spirito lodi
il Signore: serviamo e diamo la nostra vita per la redenzione delle anime,
come il Modello unico... Non vedremo i nostri sforzi coronati da gran
successo; il servo non è da più del Padrone; però avremo compiuto la
volontà del nostro Maestro, del nostro Beneamato, del nostro Amore; noi
L'avremo imitato e amato, ci saremo uniti con tutte le nostre forze a Lui
durante questa vita, la qual cosa è il nostro fine e il preludio
dell'unione eterna.»
La
vita è una lotta e una croce, ma rimane la certezza dell'Amore che si
rivela anche in questo.
11.
La vita è un cammino
"L'Amico
diceva al suo Amato: Tu sei tutto, per tutto, in tutto e con tutto. Tutto
io ti voglio, perché io ti abbia e sia tutto me. Rispose l'Amato: Non
puoi avermi tutto, se tu non sei mio. E l'Amico disse: Possiedimi tutto, e
che io ti abbia tutto. Rispose l'Amato: E che avrà tuo figlio, tuo
fratello e tuo padre? Disse l'Amico: Talmente tutto tu sei, che puoi
essere tutto per chiunque si offre tutto a te" (RL, 68).
La
nostra vita è un cammino. Camminare significa procedere, lasciare un
punto preciso - nel tempo e nello spazio - e pervenire ad un altro,
diverso. Lasciare, per cercare, con lo scopo di trovare. "Procedere
è lasciare. Lasciare cosa? Tutto ciò che è già là, stabilito, che
regola i nostri pensieri e la nostra vita. Lasciare le certezze, le
ripartizioni, i luoghi e i rapporti costituiti. Lasciare le categorie, le
teorizzazioni, con le stratificazioni e le scissioni che comportano.
Lasciare i conflitti, le controversie codificate, le concrezioni di
dottrine o metodi che riaprono antiche contese. Lasciare i linguaggi.
Lasciare le leggi più oscure, con le censure cui danno origine. Lasciare
il sé che è fedele a tutto ciò" (Maurice Bellet, L'estasi della
vita).
Ogni
vita tende alla Verità, è cammino che, attraverso il dolore e la fatica
di ogni giorno, spera di giungere al significato vero di sé. Tendere è
il movimento che permette di lasciare cose vecchie per scorgerne di nuove.
11.1.
Destino di beatitudine
Qual
è dunque il nostro Destino? È quello colmo di una gioia profonda, mai
concepita, così come è stato promesso: "Dio asciugherà ogni
lacrima dagli occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né
grido né fatica, perché le cose di prima sono passate. Ecco, io faccio
tutte le cose nuove (Apocalisse 21,4.5). Lasciare il sé, fedele al
possesso di prima, al già avuto, al conservato, a tutte le certezze
raggiunte, alla tranquillità e all'equilibrio in cui si trova
apparentemente beato, vuol dire compiere un atto di grande fede. Tutto
ciò è oltremodo difficile, poiché esige un salto nel vuoto, nel non
conosciuto, come in un abisso infinitamente profondo, in cui non saremo
più gli stessi, essendoci affidati ad un Altro. La fiducia è che l'Altro
ci sorregga, ci sostenga in quel volo senza rete, senza riferimento
alcuno, ci sollevi durante il nostro cadere. L'atto della fede fa assumere
la certezza che questo slancio non si dirige verso il vuoto assoluto,
perché la persona, credendo nella Verità, sa che il Vero è Tutto in
tutti e in ogni cosa e perciò è "consistente". La fede vera è
certa che tutto è pieno del Vero, tutto è ricolmo di Bene e là dov'è
il Vero, non ha posto nient'altro. Per questo è necessario staccarsi,
lasciare, abbandonare ed abbandonarsi.
12.
Abbandonare se stessi
"La
luce della camera dell'Amato illuminò la camera dell'Amico, per
scacciarne le tenebre e colmarla di gioie, aneliti e pensieri. E l'Amico
scacciò dalla sua camera ogni cosa, perché ci fosse posto solo per
l'Amato" (RL, 100).
La
difficoltà più grande nell'abbandonare ogni cosa per trovare il Tutto -
ossia, attendere il Tutto, togliendo ogni altra cosa - potrebbe essere
costituita da un ricatto affettivo, ma in realtà è il ricatto del mondo,
la sua possessività, lo sforzo che esso fa per costringerci a rimanere
ancorati a sé. Si tratta di una tentazione diabolica, ed è la più
primitiva, quella che viene descritta nel Vangelo di Luca (4,3) come la
tentazione della fame e che è, in realtà, tentazione del possesso in
genere. Rinunciare alle sicurezze - la posizione raggiunta, i beni
acquisiti, gli affetti posseduti - col rischio di perdere tutto, viene
prospettato come catastrofico per l'uomo. La risposta di Gesù (Luca 4,4):
"Non di solo pane vivrà l'uomo" ha il significato di ribadire
che il mondo e la realtà che viviamo non sono il porto di destino della
nostra esistenza; dice che, pur essendo necessario vivere di pane, tutto
ciò non basta a nutrirci totalmente. Il nostro spirito reclama di essere
posseduto sebbene il nostro corpo reclami, al contrario, di possedere, di
assimilare, di avere - anche se solo il pane da mangiare -. Essere
posseduti dalla Verità, dal Bene è, in definitiva, il destino di ogni
umana esperienza, in cui si risolvono le contraddizioni, i dubbi,
l'inquietudine e si raggiunge una libertà dalle costrizioni
dell'inevitabile. Si rovesciano qui i criteri umani: ciò che sembra
libertà di disporre dei beni del mondo diventa in realtà oppressione;
mentre la possessione completa della nostra vita da parte della Verità,
diventa condizione di una vera libertà.
12.1.
Libertà e Verità
Chiunque
crede nella Verità diventa veramente libero: "conoscerete la verità
e la verità vi farà liberi" (Giovanni 8,32). Liberi sia di amare
che di lasciare il mondo, in ugual modo, senza sofferenze inutili. Così
la vita avrà la sua estasi, che non è il frutto di un momento di
esaltazione, ma rappresenta - o, meglio, dovrebbe costituire - la
condizione normale e costante di ogni esistenza, di ogni vita che è
itinerario della mente e del cuore nella Verità. "La verità è
liberatrice, essa affranca da ogni legame. La verità realizza l'unione
che le creature impediscono. Queste catene devono cadere. Il Verbo eterno
parla per liberare coloro che lo comprenderanno. Se lo si ascolta, se lo
si custodisce, se si ha la felicità di accogliere ciò che dice, la voce
dei beni della terra si spegne, non ci colpisce più, non ci trascina più
nella menzogna di ciò che non è. Si diventa uno con l'Essere, e si gusta
la sua indipendenza nei confronti di tutto ciò che ha fatto, si è liberi
della libertà dei figli di Dio (Galati 6,31). La morte in croce di Gesù
sarà la dimostrazione suprema che per operare il ritorno al Padre egli
abbandona tutto, lascia tutto per entrare in lui e vivere con lui e
prendere parte alla dolcezza di questa unità, nella verità e nell'amore
(Augustin Guillerand, Éscrits spirituels, t.1).
12.2.
Lasciare gli affetti
Scrive
Meister Eckhart: "Colui che lascia padre e madre, fratello e sorella,
o altra cosa per Dio e per la Bontà, riceve il centuplo in due modi:
l'uno è che a lui il padre e la madre, il fratello e la sorella diventano
cento volte più cari che non siano ora. L'altro modo è che non soltanto
cento, ma tutte le persone, in quanto sono persone ed esseri umani,
diventano per lui incomparabilmente più cari che a lui non siano per
natura, in questo momento, suo padre, sua madre, o suo fratello. Se l'uomo
non è certo, è solo e unicamente perché egli non ha lasciato ancora
completamente per Dio e per la sola Bontà il padre e la madre, la sorella
e il fratello e ogni cosa. Come potrebbe aver lasciato padre e madre,
sorelle e fratelli per Dio, colui che li trova ancora sulla terra, dentro
il suo cuore, e che ancora si turba quando guarda e pensa ciò che non è
Dio? Come potrebbe aver lasciato per Dio ogni cosa colui che ancora guarda
e prende a cuore questo o quel bene? Dice S. Agostino: Se elimini questo o
quel bene, ti rimane la Bontà purissima in se stessa, librantesi nella
sua semplice infinitezza: essa è Dio. Perciò questa o quella cosa buona
non aggiunge nulla alla Bontà, ma ricopre e nasconde la Bontà in noi.
Riconosce ciò e ne diventa certo colui che lo vede e lo intuisce nella
Verità, poiché il vero è tale nella Verità, e perciò si deve
diventare certi in essa e non altrove" (Libro della consolazione
divina).
13.
Meditazione
"Dimmi,
folle Amico, che cosa esistette prima: il tuo cuore o l'amore? Rispose che
furono a un tempo il suo cuore e l'amore. Altrimenti il cuore non sarebbe
stato creato per amare, né l'amore per meditare" (RL, 74).
Avere
un cuore significa amare. Amare significa meditare. Per comprendere il
significato profondo di questa parola, illuminante è il seguente brano:
"Meditare è ritrovare il medesimo, è quel particolare coglimento
del "medesimo", il quale non può venire pensato se non mediante
l'esclusione della "alterità", come impossibilità di essere
anche "altro". Il coglimento del "medesimo" si svolge
all'interno del "medesimo"; si mantiene interno ad esso, nella
stessa necessità di "dire" il medesimo servendosi di altro -
con il linguaggio, nonostante il linguaggio -" (Giovanni Romano Bacchin,
Su
l'autentico nel filosofare).
Questi
appunti sono meditazioni e, così come ogni meditazione, intendono cose
che non è facile esprimere compiutamente trovando parole adatte. Le
stesse parole, poste come tramite verso la pienezza di senso cui
rimandano, devono venire tolte di mezzo, perché ci si possa ritrovare Uno
con il Senso.
13.1.
Andare oltre l'ovvietà
Ogni
vera meditazione è dunque rivolta a chi sa andare oltre le parole,
sapendo che non esiste nessun termine e quindi nessuna
"mediazione" che possa dire compiutamente il Tutto.
"Chiunque pensi sa che continuamente gli si presentano alla mente
cose che sembrano semplicissime, anzi banali, la cui apparente banalità
tuttavia è solo il rovescio della loro profondità e ricchezza di
significati. Questa semplicità può addirittura far velo alla loro
rilevanza. Alla nostra attesa piace ricercare l'interessante e il
grandioso, ma finché noi conserviamo questo desiderio, quant'è veramente
significativo si circonda del carattere della quotidianità e scompare
così dalla nostra vista. Chi pensa davvero deve imparare ad andar oltre
l'apparenza dell'ovvio e a immergersi nelle profondità abissali" (Romano
Guardini, Accettare se stessi).
14.
La Verità non è nascosta
"L'Amato
s'allontanò dall'Amico, e l'Amico cercò l'Amato con la memoria e
l'intelletto per poterlo amare. L'Amico trovò il suo Amato; gli chiese
dov'era stato. Rispose: Nell'Assenza del tuo ricordo e nell'ignoranza
della tua intelligenza" (RL, 92).
Se
la Verità sembra nascondersi è solo perché siamo noi incapaci di
coglierla in tutti i risvolti della vita, in tutte le pieghe o
"piaghe" della storia; si cela ai nostri occhi capaci di vedere
soltanto indirettamente, grazie alla luce, gli oggetti, le forme, i
colori, i limiti di questo mondo. Si nasconde alla nostra intelligenza,
che si crede potente da penetrare la realtà, mentre non ha null'altro che
la presunzione di crederlo possibile. Si occulta alla nostra memoria,
facoltà impareggiabile, ma limitata anch'essa da meccanismi fisiologici,
osmosi di sostanze, cariche elettriche infinitesimali. Solo la fede
sostituisce queste incapacità: fede non è credere ciecamente, ma vedere
oltre il limite, giungere fino al fondo della realtà, la vera realtà,
che non è l'oggetto della percezione dei nostri sensi, dell'intuizione
delle nostre intelligenze, ma qualcosa di diverso. Allora non sarà ciò
che vediamo normalmente ad essere considerato "reale", ma anche
quello che crediamo, che speriamo, ciò che la fede intuisce, scorge,
suggerisce.
14.1.
Salvi nella speranza
La
nostra salvezza, dall'umana finitudine, risiede in questo: noi siamo
salvati dai limiti di questa realtà apparente in quella speranza che un
giorno diventerà vera realtà. "E noi abbiamo visto e siamo
testimoni che il Padre ha mandato il suo Figlio quale salvatore del mondo
(1 Giovanni 4,14). Siate sicuri, voi che siete ammalati. È venuto un
medico come questo e voi ancora disperate? I mali erano grandi, le ferite
erano insanabili, la malattia era disperata. Tu poni la tua attenzione
sulla grandezza del tuo male, e non poni attenzione alla potenza del
medico? Tu sei disperato, ma Egli è onnipotente. Di questo ci offrono
testimonianza coloro che per primi sono stati guariti e ci hanno fatto
conoscere il medico. E tuttavia essi sono stati salvati più nella
speranza che in realtà. Così dice infatti l'Apostolo: "Nella
speranza siamo salvati" (Romani 8,24). Dunque, noi abbiamo cominciato
ad essere risanati nella fede; perciò la nostra salvezza giungerà al suo
compimento quando questo nostro corpo corruttibile diventerà
incorruttibile, e questo nostro corpo mortale diventerà immortale (1
Corinzi 15,53-54). Questa è speranza, e non è ancora realtà. Ma chi ha
gioia nella speranza, otterrà anche la realtà; invece, chi non ha
speranza, non potrà giungere alla realtà" (Agostino, Commento
alla prima lettera di Giovanni, Discorso VIII, n.13).
Per
quanto riguardo il rapporto fra fede e realtà, è
stato scritto: «La fede, che vale come compimento estremo della ragione -
e cioè come coscienza dimostrata della duplice impossibilità di negare
il vero e di oggettivarlo -, rappresenta una autentica conversione dello
sguardo che fa essere il mondo. Tale conversione consente di aprirsi alla
speranza anche quando la conoscenza ordinaria - ed in particolare la
scienza - sembra, malignamente, volerla negare, per la presunta evidenza
di «leggi» che vengono dichiarate «tesi» ma che permangono mere «ipotesi
operative», sempre correggibili perché mai in grado di cogliere
l'effettiva realtà» (Aldo Stella, Per una concezione
filosofica dello "psichico").
15.
Religione e tensione alla Verità
"L'amore,
l'amare, l'Amico e l'Amato sono così fortemente uniti nell'Amato da
essere in essenza un solo atto; e l'Amico e l'Amato sono diversità che si
corrispondono, senza alcuna contraddizione né discordanza d'essenza. E
dunque l'Amato dev'essere amato più d'ogni altro amore" (RL, 211).
"Dimmi,
folle Amico: perché hai un amore così grande? Rispose: Perché lungo e
pericoloso è il cammino per cui vado in cerca del mio Amato. A fatica
devo cercarlo e in fretta mi conviene camminare; e non potrei fare tutto
questo senza un grande amore" (RL, 212).
La
parola religione esprime sia il senso di raccolta - di leggi, cerimonie,
ma anche di persone - sia il carattere di patto, di legame fra l'essere
umano e la divinità. In ambito cristiano, la religione si costituisce
attraverso una storia di alleanza, che è la rivelazione graduale,
progressiva di Dio ad un piccolo popolo con la promessa sacra di una
terra, di costituirli in nazione, di premiarli con una numerosa progenie.
L'uomo, d'altro canto, si impegna a venerare Dio, rispettando il patto
attraverso l'esercizio di culti precisi, sacrifici, rituali. È necessario
sottolineare che:
*
il senso della parola "alleanza" può essere equivoco: non si
tratta di un semplice contratto, che pone due attori - Dio e l'uomo -
sullo stesso piano, quasi un accordo alla pari, da una parte la promessa
di un bene futuro, dall'altro il culto da rendere in cambio;
*
la promessa di Dio è rivolta all'uomo perché si ricordi della sua
condizione esistenziale: sofferente, disperso, schiavo, solo Dio può
sollevarlo dal suo triste stato, donandogli pace, gioia, unità e
libertà;
*
il rito, la legge, il sacrificio sono elementi intermedi, come di
passaggio; l'uomo non può e non deve fermarsi al culto - personale o
esercitato da intermediari, detti sacerdoti -, ma deve trasformarsi egli
stesso in tempio di Dio, sacrificio vivente a lui gradito, immergere
quanto ha di profano nel sacro; non evocare il sacro o costruirlo, ma
rendersene conto, viverlo.
15.1.
Nessuna religione si sostituisce al Vero
La
concezione legalista della religione è retaggio dell'Antico Patto: tale
concezione riduce la religione ad un'amministrazione di culti, cerimonie,
sacramenti, oltre all'esercizio esclusivo di poteri di liberazione e di
condanna. Tale concetto esula totalmente da ciò che viene confermato nel
Vangelo di Cristo e che ogni uomo veramente spirituale sa dentro di sé.
Cristo, infatti, non è venuto a portare un'altra religione, ma a
modificare il concetto stesso di rapporto con la divinità. Mentre la
religione parte sempre dall'uomo, il cristianesimo parte da Dio, da una
sua libera iniziativa di farsi conoscere ed amare. In questo ambito, chi,
da sempre, supera l'idea vetero-testamentaria dell'esperienza religiosa è
il "mistico". Egli desidera ardentemente realizzare l'unione con
Dio, ma un'"unione senza intermediari" (Benedetto da Canfield,
Regula perfectionis). Il mistico sa però bene che fra l'uomo e Dio non si
pone mai in essere un'unione perfetta: "Se infatti il Dio al quale
aspirano nel loro intimo è veramente Dio, allora egli resta a un'enorme
distanza - una distanza infinita - nel momento stesso in cui l'anima si
sente perduta in lui. La più elevata unione mistica non equivale mai alla
perfetta unione. Sempre essa resta incompiuta e come rinviata. Una delle
caratteristiche dei testi mistici è l'uso di espressioni paradossali.
"Io prego Dio di liberarmi da Dio": la frase, di Meister Eckhart,
costituisce uno degli esempi più impressionanti di paradosso mistico.
Essa indica anzitutto ciò a cui il mistico aspira: un'unione con il
Divino di intensità tale che egli si senta interamente assorbito da lui,
fuso in lui. Essere liberato da Dio non significa venirne privato, né
tantomeno rinunciare alle dolorose ma necessarie purificazioni (la
ricorrente tentazione cui i mistici debbono far fronte), ma significa
invece che è venuta meno la dualità esistente tra Dio e l'anima.
L'aspirazione espressa da questa preghiera è quella di una soppressione
della distinzione tra i due. Un desiderio, però, che è destinato a
restare sempre tale, perché già nel formularlo il mistico è conscio
dell'impossibilità del suo appagamento. L'incapacità di amare Dio nel
modo opportuno rende più intenso il desiderio dei mistici: essi non
potranno amare in maniera infinita che lasciando agire Dio come lui
desidera. Occorre anche che il lasciarlo agire non sia una sottomissione
attiva, ma una sorta di passivo e oscuro abbandono alla grazia che rende
preda di Dio" (Joseph Beaude, La mistica).
15.2.
Il Maestro interiore
Scrive
Agostino, commentando la frase "Voi non avete bisogno che qualcuno
vi ammaestri, perché la sua unzione vi istruisce su tutto" (1
Giovanni 2,27). "Qui c'è un grande mistero: il suono delle nostre
parole istruisce le vostre orecchie, ma il maestro è dentro di voi. Non
crediate di poter imparare qualcosa da un uomo. Noi possiamo esortarvi con
il suono della nostra voce; ma se dentro di voi non c'è chi vi ammaestra,
il suono delle nostre parole diventa inutile. [...] Per quanto mi
riguarda, io ho parlato a tutti: ma quelli ai quali l'unzione non parla
dentro, quelli che lo Spirito non ammaestra al di dentro, se ne ritornano
senza essere stati ammaestrati. Gli insegnamenti esteriori forniscono
degli aiuti e degli ammonimenti. Colui che ammaestra i cuori ha la sua
cattedra in cielo (Cathedram in caelo habet qui corda docet).
Perciò egli dice nel Vangelo: "Non fatevi chiamare maestri sulla
terra; uno solo è il vostro maestro, Cristo" (Matteo 23,8-10). Sia
dunque Cristo a parlare dentro di voi, in quanto dentro di voi non può
esserci nessun uomo, perché se qualcuno può mettersi al tuo fianco,
nessuno può entrare nel tuo cuore. E che nessun uomo stia nel tuo cuore;
nel tuo cuore stia solo Cristo! Nel tuo cuore stia la sua unzione,
affinché il tuo cuore assetato non rimanga nella solitudine, senza avere
le fonti da cui possa ricevere acque. Dunque, è il maestro interiore che
ammaestra: è Cristo che ammaestra, è la sua ispirazione che ammaestra.
Dove non c'è la sua ispirazione e la sua unzione, le parole che escono
fuori sono un inutile schiamazzo" (Commento alla Prima lettera di
Giovanni, Discorso III, n.13).
Quindi,
il Vero Maestro non è in terra, ma è Cristo, che insegna, attraverso le
persone e gli incontri che si fanno. L'Imitazione di Cristo riporta dei
brani molto belli: «"Parla o Signore il tuo servo ti
ascolta" (1 Samuele 3,10). "Io sono il tuo servo; dammi luce per
apprendere quello che tu proclami" (Salmo 118, 125). Disponi il mio
cuore alle parole della tua bocca; il tuo dire discenda come rugiada.
Dissero una volta a Mosè i figli di Israele: "Parlaci tu, e potremo
ascoltarti; non ci parli il Signore, affinché non avvenga che ne
moriamo" (Esodo 20,19). Non così la mia preghiera o Signore.
Piuttosto con il profeta Samuele , in umiltà e pienezza di desiderio, io
ti chiedo ardentemente: "Parla o Signore, il tuo servo ti
ascolta". Non mi parli Mosè o qualche altro profeta; parlami invece
tu, Signore Dio, che ispiri e dai luce a tutti i profeti: tu solo, senza
di loro, mi puoi ammaestrare pienamente; quelli, invece, senza di te, non
gioverebbero a nulla. Possono, è vero, far risuonare parole, ma non danno
lo spirito; parlano bene ma, se tu non intervieni, non accendono il cuore;
lasciano degli scritti, ma sei tu che ne mostri il significato; presentano
i misteri, ma sei tu che sveli il senso di ciò che sta dietro al simbolo;
emettono ordini, ma sei tu che aiuti ad eseguirli; indicano la strada, ma
sei tu che aiuti a percorrerla. Essi operano solamente all'esterno, ma tu
prepari e illumini i cuori; essi irrigano superficialmente, ma tu rendi
fecondi; essi fanno risuonare delle parole, ma sei tu che aggiungi
all'ascolto il potere di comprendere. Non mi parli dunque Mosè; parlami
tu, o Signore mio Dio, verità eterna, affinché, se ammonito solo
esteriormente e privo di fuoco interiore, io non resti senza vita e non mi
isterilisca; affinché non mi sia di condanna la parola udita ma non
tradotta in pratica, conosciuta, ma non amata, creduta ma non osservata.
"Parla, dunque, o Signore, il tuo servo ti ascolta": "tu
hai parole di vita eterna" (Giovanni 6,69). Parlami, affinché scenda
un po' di consolazione all'anima mia, e tutta la mia vita sia
purificata» (Libro III, Capitolo 2).
15.3.
Mistica e devozione
La
più decisa opposizione alla religione viene dalla mistica e l'opposizione
alla mistica viene proprio dalla religione, anzi dall'elemento "più
religioso della religione", la devozione, che, secondo Francesco di
Sales "rappresenta "il fiore più puro" della religione. La
devozione muove insomma critiche serrate alla mistica, affermandosi come
perfetta realizzazione della religione di contro a quanto sembra invece
astrarsi da essa. La devozione spinge ad obbedire quanto più possibile
agli obblighi religiosi, ma anche ad assumerli liberamente, e in più, ad
avere iniziativa personale e inventiva. "Non solo - scrive Francesco
di Sales - essa ci rende pronti, attivi e diligenti nell'osservare tutti i
comandamenti di Dio; ma fa anche sì che noi compiamo con prontezza e
dedizione il maggior numero di buone opere, quand'anche non ci siano
comandate, ma soltanto consigliate o suggerite. Essa corre, salta, è
pronta, attiva e obbediente". In breve, la devozione è la virtù che
facilita l'esercizio della religione, estendendolo ed elevandolo al di
sopra della religione dei precetti. La religione, per il devoto, diviene
una seconda natura" (Joseph Beaude, op.cit.).
15.4.
Unione senza intermediari
Tutto
sembra opporre il devoto al mistico. Ad esempio, "la devozione spinge
a compiere quante più buone opere possiamo, mentre il mistico, anche
quando è agli inizi, è invitato a lasciare agire Dio. Caratteristica del
devoto è l'attività, o meglio una sorta di iperattività, in quanto egli
deve dedicarsi a un maggior numero di pratiche e di opere. Il mistico si
trova invece subito sulla via di una passività che non farà che
aumentare. Sin dal principio i testi mistici sottolineano la relatività e
l'inaffidabilità degli atti di religione. Proprio questo è il rimprovero
che i devoti muovono ai mistici, di trascurare preghiere, meditazioni,
pratiche ascetiche. Si nota persino che minimizzano l'importanza al
ricorso ai sacramenti e sono indifferenti alle esigenze morali e alle
verità dottrinali. Insomma, non hanno "religione". Se la
devozione si propone come eccellenza della religione, la mistica pare
basarsi sulla sua assenza. L'ateismo di cui vengono accusati i mistici
indica proprio questa mancanza di religione. Mistica e devozione si
oppongono alla radice. La religione, e a maggior ragione la devozione che
pretende esserne la realizzazione, forniscono proprio i mezzi per
"legare" a Dio, laddove la mistica si presenta come la via
dell'unione senza intermediari. È in questo senso una negazione della
componente religiosa. Il fatto che alcuni periodi storici vedano
svilupparsi parallelamente due forme così distanti fra loro, devozione e
mistica, sta a significare che ad una stessa crisi vengono opposte due
risposte diverse. La devozione traduce l'unione col divino attraverso
l'annullamento di sé in termini di relazione, cioè di religione. La
mistica, cruciale esperienza del vuoto di mezzi della religione, ne fa
totalmente a meno nella spoliazione più radicale" (Joseph Beaude,
op.cit.).
15.5.
Guidati dallo Spirito d'amore
La
via devozionale e la via mistica sarebbero dunque risposte diverse alla
questione di fondo. La scelta personale, la propria adesione all'una o
all'altra si basa unicamente sul criterio della propria affettività o
rispondenza. Detto diversamente, ci si accorge del dono ricevuto, ossia di
ciò che si è e si decide di seguire una via piuttosto che un'altra: è
quello che viene chiamato altrimenti "vocazione". Sembra che la
via mistica non sia molto transitata, anche se è dubbio che ciò dipenda
dalla carenza del dono, cioè di chiamate in questo senso. Forse è da
ricercare piuttosto nell'incapacità umana - sempre più evidente - di
spogliarsi di tutto, compresa la mania di protagonismo, anche a livelli
bassi e di inchinarsi "alla maestà sovrana della Verità" (cfr.
sopra Romano Guardini al punto 4.1), riconoscendo le giuste proporzioni. Scrive a tal
proposito Giovanni della Croce: "Ciò avviene non perché Dio
voglia che pochi siano gli spiriti eletti, che anzi vorrebbe che tutti
fossero perfetti; ma perché trova pochi vasi capaci di un'opera
simile" (Fiamma viva d'amore, strofa 2, n.27). Come è possibile
superare ciò? Bisogna intanto avere il coraggio di affermare che la vera
religione è religione d'amore: amore della Verità. Affermare ciò
diventa estremamente pericoloso, perché più che di religione, allora, si
dovrebbe parlare di un atteggiamento dello spirito; e non si può
organizzare, rendere "istituzione" una realtà tanto grande come
lo Spirito, non relegabile in schemi di pensiero o in ambiti puramente
sociali o culturali. Amare la Verità è religione in atto: atto dello
Spirito che ricerca la sua Origine, proiettato però verso il suo Destino,
che attende di compiersi in tutto e in tutti.
15.6.
Appartenenza
L'appartenenza,
dunque, non dovrebbe mai riguardare una religione o pratiche precise di
culto, una comunità definita, un popolo od una nazione. Tutto ciò deve
essere inteso nel giusto senso: pur facendo parte di un famiglia, di una
comunità, di un gruppo, dal punto di vista sociale e religioso, la vera
tensione sarà quella di svincolarsi da queste inevitabili realtà,
sganciarsi da queste dipendenze per sottomettere la propria vita alla
Verità. Il nostro destino non è essere uno fra i tanti, ma uno nell'Uno,
che tutti accoglie, assorbe, governa ed ama. Olivier Clément ha scritto
che i veri uomini religiosi sono riconosciuti nel mondo non perché fanno
parte di un ordine, di una comunità, o perché si vestono in un certo
modo, ma perché si "sente" che tali persone "hanno
scoperto qualcos'altro, che si radicano in un "altrove" così
reale da esser pronti a dare la propria vita per esso. Un
"altrove" che non fa vivere altrove, come una droga, ma che
consente di amare in maniera disinteressata". La cosa più
importante, appare dunque oggi, "la convergenza di spiritualità
diverse per servire la vita. Impariamo a poco a poco a distinguere nelle
religioni ciò che chiamerei il "religioso" dallo
"spirituale". Il religioso resta nella dimensione psicologica e
sociologica. Si accontenta di un credo facile trasformato in ideologia,
nel quale si definisce contro gli altri. Lo spirituale impegna in una fede
personale, cosciente, che si orienta verso l'esperienza mistica. Fa
esplodere il narcisismo individuale e collettivo. Grazie ad esso, l'altro
appare come una figura della trascendenza. Fa insorgere nell'uomo un
nucleo di fuoco - ciò che chiamiamo la persona - che giustamente esprime
un "altrove" irriducibile agli odi di questo mondo. Come si
ottenga l'unità di tutti gli spirituali, noi non lo sappiamo, Dio solo lo
sa, ma noi sappiamo che ogni preghiera lo centra, che ogni meditazione
scopre nell'uomo il luogo della sua presenza. La convergenza planetaria
dello spirituale può solo fondare la pace. Lo spirituale è il fuoco che
fa vivere, il religioso la cenere che acceca. Per questo le religioni
devono senza tregua risalire dal religioso allo spirituale, devono senza
tregua convogliarlo nel cuore di tutte le forme di esistenza. Come un
fermento, come un appello, come il loro atlante, indifferenti alla loro
vita, pregando con tutti poiché Dio è unico. E, tutto sommato, il più
interessante è lui" (articolo tratto dal quotidiano
"Avvenire", maggio 1995).
16.
Dimenticanza della Verità
"Chiesero
all'Amico in che consisteva l'onore. Rispose: nell'intendere e amare
l'Amato. Gli chiesero in che consisteva l'offesa. Rispose che era nel
dimenticare e non amare il suo Amato" (RL, 108).
Offendere
la Verità è dimenticarla. Dimenticare la Verità è allontanarvisi -
nella mente e nel cuore -. Dimenticando, ossia non amando più, la Verità
diventa incomprensibile anche la nostra vita. Nasce da ciò il peccato,
che è dimenticanza della Verità, con tutto quello che ne consegue.
Spesso nel nostro immaginario il peccato è associato al senso di colpa
per qualche gravissimo oltraggio commesso - l'etimologia di
"offesa" è proprio quella di un urto, di un colpo assestato
contro qualcuno -. Nell'Antico Testamento, per definire il peccato, non
viene mai usata un'espressione carica di giudizio morale; semplicemente,
peccato è perdere di vista l'obiettivo, fallire il bersaglio, non aderire
più al fine. Poiché tutto dipende dalla Verità, che è il fine di ogni
esistenza e poiché peccare è perdere di vista questo fine, il peccato
significa rottura di una relazione vitale. In un testo biblico è scritto:
"Beati quelli che osservano le mie vie! Beato l'uomo che mi ascolta,
vegliando ogni giorno alle mie porte. Poiché chi mi trova, trova la vita
e ottiene favore dall'Eterno. Ma chi pecca contro di me, fa male a se
stesso; tutti quelli che mi odiano amano la morte" (Proverbi
8,32-36). Così, l'offesa - che nascerebbe dal peccato commesso -, non
risulta nei confronti della Verità, ma contro di noi: il "colpo ben
assestato" è quello che ci sposta prepotentemente dalla direzione
che la Verità ci sollecita a prendere, dal cammino su cui il Vero ci
guida. È dunque un colpo che fa male unicamente a noi. Chi pecca,
"fa male a se stesso" e la direzione su cui ha posto la sua vita
è quella che conduce alla morte - che è la perdita della Verità, ossia
la perdita di ogni cosa, compreso se stessi -.
16.1.
Il senso distorto
Perdere
la relazione con la Verità significa smarrire il giusto rapporto anche
con la nostra persona e con la realtà che viviamo, significa percorrere
una strada sbagliata. Il peccato è perciò un fallimento, un
"difetto nel piede" che cammina sì, ma in modo errato, su
percorsi che non portano alla Verità. Da alcuni - anche autori spirituali
- il peccato è visto non in senso strutturale, ontologico, ma unicamente
dal lato morale. Il peccato, per loro, risulta da un atto compiuto o
intenzionato, deliberato e cosciente da parte della persona, la quale
rimane perfettamente consapevole dell'errore che ha compiuto - o che sta
per commettere - e ciononostante possiede la volontà ferma di attuarlo.
Tale volontà, tutta tesa al negativo, appare sinceramente poco credibile,
perché dovrebbe essere eccezionalmente pura. È del tutto improbabile
anche se pensata positivamente, come ferma volontà di percorrere la
strada che conduce alla Verità, sempre e comunque. Non sappiamo quale sia
con certezza la direzione al Vero, e spesso il nostro camminare è
divergere, sbagliare, proseguire a prove ed errori. Altri autori
spirituali non parlano esplicitamente del peccato, pur trattandolo. Essi
sanno che il peccato è insito nella natura dell'uomo e si definisce come
mancanza di Verità. È la caratteristica forse più umana che esista.
Quando ne accennano non insistono mai con una critica morale, ma lo
pongono come un invito - pressante - a rendersi conto, a ricordarsi, a non
dimenticarsi che la Verità va ricercata e amata, e che la nostra ricerca
non avrà mai fine - fino a che vivremo -.
16.2.
Il mondo si sottrae al Vero
Questo
stato naturale di peccato - ricordato continuamente nella Sacra Scrittura
- è chiamato mondo. Il mondo, che siamo tutti noi, si oppone alla Verità
in maniera forte, radicale. "La verità è il destino che resta in
attesa del tramonto del "mondo". Il "mondo" è la
volontà di sottrarsi al destino dell'essere" (Emanuele Severino,
Essenza del nichilismo). Questa volontà di sottrarsi è il peccato del
mondo, quello che qualcuno ha definito come "disperazione", che
è l'unica vera malattia mortale - cfr. Sören Kierkegaard -: ossia, da parte
dell'uomo, disperatamente non voler essere se stesso - non accettare,
cioè, che senza Verità si è nulla - e disperatamente voler essere se
stesso - sostituirsi in qualche modo alla Verità, ossia costituirsi
Verità -. Questa "pretesa", condannata nel Genesi come il primo
peccato, è diabolica: l'uomo - e il mondo, come mentalità - arriva a
pensare di voler essere come Dio, di volersi sostituire a Dio, come fonte
della propria vita, come Verità di sé. Dunque, da un punto di vista
strutturale e quindi dal lato più significativo, il peccato è non
fidarsi più della Verità, fidando unicamente su se stessi; sostituendoci
alla Verità, in qualità di origine e destino di ogni nostro atto - un
"mezzo" che giustifica se stesso, ponendosi cioè come
"fine" -, commettiamo il peccato più grande, proprio perché il
più irragionevole. La nostra è solo una pretesa, che smette cioè di
essere tensione alla Verità e dà per scontato di averla già raggiunta.
Tutti coloro che si pongono come depositari della Verità, dunque,
commettono il peccato primigenio; la Verità, infatti, non si possiede, ma
si può cercare con umiltà, nel rischio dello sviare dalla giusta
direzione, confidando comunque sempre nel suo Amore: che sostenga i nostri
passi e ci conduca al giusto porto.
16.3.
Aiuto premuroso
Indipendentemente
dal motivo che ha condotto al peccato, a questa "dimenticanza"
del Vero, occorre premura e sollecitudine da parte di altri che credono.
Questo aiuto è quasi sempre fondamentale. Scrive Giovanni della Croce:
"L'anima virtuosa, ma sola e senza maestro, è come il carbone
acceso, ma isolato, il quale invece di accendersi si raffredderà. Chi
cade da solo, solo resta nella sua caduta e tiene in poco conto la propria
anima, poiché l'affida a sé solo. Se dunque con temi di cadere da solo,
come presumi di rialzarti da solo? Ricordati che due persone congiunte
hanno più forza di una sola. Chi cade con un peso addosso, difficilmente
si rialzerà con il suo peso. Chi cade perché è cieco, come cieco non si
rialzerà da solo, e se vi riuscirà, si incamminerà per una via non
giusta" (Avvisi e Sentenze).
Mentre,
Bonaventura da Bagnoregio: "Colui che è caduto necessariamente
rimane a terra, se qualcuno al suo fianco non lo "aiuta a
rialzarsi" (Itinerarium mentis in Deum, IV, 2), citando il profeta
Isaia (24,20): "Barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come
una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si
rialzerà" ed il Salmo 41(40), 9: "Un morbo maligno su di lui si
è abbattuto, da dove si è steso non potrà rialzarsi".
16.4.
Attesa desiderosa
L'uomo
del peccato, della dimenticanza, si trova solo, in terra riarsa. E
"come uno, solo, nel deserto, l'unica cosa che possa fare è
aspettare che qualcuno venga" (Luigi Giussani, Tracce d'esperienza
cristiana). La malattia moderna è l'indifferenza nei confronti degli
altri, questa lacerante mancanza d'amore. L'amore si esprime comunicando
la Verità della vita. Nell'indifferenza, ossia nel "non amore",
si consuma, presto o tardi, il destino dell'uomo che rimane lontano dalla
Verità. Tale situazione di peccato, in realtà, è comune a tutti gli
uomini. Poiché "tutti hanno peccato e sono privi della gloria di
Dio" (Rm 3,23). Tutti noi, dunque, attendiamo, come in un deserto,
che qualcuno venga a salvarci.
"Attendere
non significa agire, ma restare disposto a qualche avvenimento. E, se ben
si considera, l'attesa dell'anima è veramente volontaria; tuttavia, non
è azione, ma semplice disposizione a ricevere quel che verrà. Allorché
gli avvenimenti sono giunti e ricevuti, l'attesa si muta in consenso o
acquiescenza; ma prima della loro venuta l'anima è in una semplice
attesa, indifferente a tutto ciò che alla divina volontà piacerà
disporre" (Francesco di Sales, Teotimo, IX, 5).
16.5.
Memoria della Verità
"Nella
notte, Signore, ricordo il tuo Nome" (Salmo 119[118], 55).
"O
voi che credete; ricordatevi di Dio incessantemente" (Corano
33,41)."Ci sono due tipi di ricordo di Dio: quello della lingua e
quello del cuore. Mediante il ricordo della lingua (dikr al-lisân)
uno giunge al continuo ricordo del cuore (dikr al-qalb); però
l'efficacia sta nel ricordo del cuore. Il ricordo di Dio è un solido
pilastro sulla via di Dio, anzi esso è il sostegno fondamentale di questo
cammino: nessuno arriva a Dio se non con il continuo ricordo di Dio.
Quando uno si ricorda veramente di Dio, dimentica al ricordo di Lui ogni
cosa; Dio però conserva per lui ogni cosa e per lui Egli prende il posto
di ogni cosa. Ti ho ricordato, non perché io ti abbia dimenticato un solo
momento; il ricordo più facile è il ricordo della lingua. Senza estasi
stavo per morire di passione, e il mio cuore impazzì con i suoi battiti.
E quando l'estasi mi fece vedere Te presente, Ti ho visto presente in ogni
luogo. Ed ho parlato a uno presente, senza usare parole, ed ho fissato lo
sguardo su di uno a me noto, senza guardare con gli occhi." (Abû
l-Qâsim al-Qušayrî, Al-risâla fî 'ilm al-tasawwuf).
Il
ricordo di Dio è il non venire meno della nostra tensione: ciò che si
desidera col cuore si sostiene attraverso il ricordo verbale. La
preghiera, allora, assume il significato di sostegno all'intenzionalità
credente, di supporto alla tensione alla Verità.
Il
ricordo del nome di Dio è tipico della spiritualità islamica (e in
particolar modo nell'ambito dell'esperienza mistica Sufi), ma anche di
quella ortodossa.
17.
Oceano Infinito
Spesso
la Verità è stata rappresentata come un mare infinito, un oceano
profondo in cui annegare i nostri pensieri, le nostre ansie, la nostra
vita, il nostro essere.
Un
verso del poeta Gialâl ad-Dîn Rûmî, facendo parlare Dio, l'Amato,
dice: "Tu sei del mio oceano la goccia: a che più parli ancora?
Annegati in me, e l'anima conchiglia abbi piena di perle!".
Scrive
Augustin Guillerand (op.cit.): "Oceano infinito, il cui fondo si
allontana a misura che si avanza, la cui ampiezza si estende senza fine.
La nostra gloria e la nostra gioia saranno proprio di avere un Padre che
ci sorpassa all'infinito. Noi gioiremo così di ciò che non
comprenderemo; noi esulteremo di non comprendere. Per una creatura, vedere
Dio è vedere che egli è più grande di tutto, che ciò che essa vede è
lui, è veramente lui, è veramente l'Essere che è e si dona. Essa vede
che egli è, essa vede che egli si dona; ma nessuno vede tutto ciò che
egli è e dona. Egli è di una semplicità inconcepibile, unica, che
oltrepassa tutte le nostre parole e tutte le nostre idee; davanti a lui
bisogna veramente adorare e tacere...".
E
Raimondo Lullo:
"L'amore
è un mare agitato da onde e venti, che non ha porto né riva. Muore in
mare l'Amico, e nella sua morte muoiono i suoi tormenti e nasce la sua
pienezza" (RL, 235).
Amen.
Gradi di maturità
spirituale secondo Meister Eckhart (dal Trattato "Dell'uomo
nobile")
Primo
grado:
Si
ha quando l'uomo vive secondo il modello di persone buone e sante, ma si
appoggia ancora alle sedie, cammina lungo le pareti e si nutre di latte.
Secondo
grado:
Si
ha quando l'uomo non guarda più ormai a modelli esterni e a persone
virtuose, ma corre e si affretta verso l'insegnamento e il consiglio di
Dio e della saggezza divina, volge le spalle all'umanità e il volto a
Dio, abbandona il seno di sua madre e sorride al Padre celeste.
Terzo
grado:
L'uomo
sfugge sempre più a sua madre, si allontana sempre più dal suo grembo,
fugge le preoccupazioni, elimina la paura a tal punto che, pur potendo
senza scandalo di nessuno agire male e ingiustamente, non ne ha affatto il
desiderio: poiché egli è legato a Dio con l'amore e la buona volontà,
fino a che Dio lo conduce e lo immette nella gioia, nella dolcezza e nella
felicità, dove gli diventa insopportabile tutto ciò che è dissimile ed
estraneo a Dio.
Quarto
grado:
Si
ha quando l'uomo cresce ed affonda sempre più le sue radici nell'amore e
in Dio, in maniera da essere pronto ad accettare qualsiasi contrasto,
tentazione e avversità e a sopportare il dolore volentieri e di buon
animo, con desiderio e gioia.
Quinto
grado:
Si
ha quando l'uomo vive con tutto se stesso nella pace e nella serenità,
riposando nella ricchezza e nella sovrabbondanza dell'altissima,
inesprimibile saggezza.
Sesto
grado:
Si
ha quando l'uomo, liberato da ogni immagine e trasfigurato dall'eternità
di Dio, è giunto all'oblio pieno e totale della vita transitoria e
temporanea, portato e trasformato in un'immagine divina e diventato
fanciullo di Dio.
Non
esiste alcun grado oltre questo: qui sono il riposo e la felicità eterna,
poiché la meta dell'uomo interiore e dell'uomo nuovo è la vita eterna.
Il senso del ricercare
secondo Meister Eckhart (dal Sermone "Gott
hat die Armen")
Chi
cerca qualcosa in Dio - scienza, conoscenza, devozione o che altro -, se
lo trova, non trova Dio, anche se trova scienza, conoscenza, interiorità
- cose che lodo affatto -; ma ciò non permane in lui. Se invece non cerca
niente, trova Dio e tutte le cose in lui, ed esse permangono nell'uomo.
Non
si deve cercare niente, né conoscenza, né scienza, né interiorità né
devozione né pace, ma soltanto la volontà di Dio. Nella volontà di Dio
tutte le cose sono, e sono qualcosa, sono accette a Dio e perfette. Un
uomo non dovrebbe mai pregare per cose transitorie; ma se vuole pregare
per qualcosa, deve domandare soltanto che sia fatta la volontà di Dio, e
niente altro; ed allora ottiene tutto.
Se
si cerca soltanto la volontà di Dio, si deve accettare quello che ci
capita, o che ci viene manifestato, come un dono di Dio, e non stare a
vedere e considerare se venga dalla natura o dalla grazia, o da dove e in
qual modo: tutto ciò deve essere per noi indifferente. Allora uno è come
deve essere: e si deve condurre una semplice vita cristiana, senza mirare
ad una condotta particolare. Quel che si fa è sempre sufficiente, se v'è
in noi l'amore di Dio.
L'anima
è fatta per un bene così grande ed alto, che essa non può in alcun modo
trovare riposo, ed è sempre infelice, finché non giunge, sopra ogni
modo, a quel bene eterno che è Dio, per il quale essa è fatta. Non vi
giunge però con impeto, con la rigida ostinazione a fare questo e a
lasciare quello, ma con la mitezza, in fedele umiltà e rinuncia a se
stesso, nei confronti di tutto quello che capita. Tutto ciò che si può
consigliare e insegnare è che l'uomo si lasci condurre, e non abbia che
Dio in vista, per quanto questo si possa presentare con molte e diverse
parole.
L'uomo
deve rivolgere il proprio volere a Dio in ogni opera, ed avere negli occhi
Dio solo. E così proceda, e non abbia timore, senza stare a considerare
se così va bene per non compiere passi falsi. Infatti, se un pittore,
dovendo dare il primo tratto di penna, considerasse tutti gli altri, non
concluderebbe nulla. Se qualcuno dovesse recarsi in una città, e stesse a
considerare come fare il primo passo, non concluderebbe nulla. Perciò
l'uomo deve seguire la prima ispirazione e procedere avanti; allora giunge
dove deve, e va bene così.
Cosa deve avere l'uomo per
abitare in Dio (Dal Sermone "Permanete
in me")
L'uomo
deve possedere tre cose:
1.
Aver rinunciato a se stesso e a tutte le cose, non essere attaccato a
niente che tocchi dall'interno i sensi, non soffermarsi in alcuna creatura
che sia nel tempo o nell'eternità.
2.
Che non ami né questo né quel bene, ma che ami invece quel Bene da cui
fluisce ogni bene, giacché nessuna cosa è piacevole e desiderabile se
non in quanto Dio è in essa. Perciò non si deve amare un bene se non
nella misura in cui si ama Dio in esso; dunque non si deve amare Dio per
il suo regno dei cieli per che altro, ma lo si deve amare per la bontà
che egli è in se stesso. Infatti chi lo ama per qualcos'altro non abita
in lui, ma abita in ciò per cui lo ama. Perciò, se volete dimorare in
lui, non amatelo per niente altro che per lui stesso.
3.
L'uomo non deve prendere Dio in quanto è buono o giusto, ma lo deve
cogliere nella sua sostanza pura, nuda, in cui egli stesso si coglie
puramente. Infatti la bontà e la giustizia sono una veste di Dio, che lo
avvolge. Perciò dovete togliere a Dio tutto quel che lo avvolge, e
prenderlo puramente nel suo guardaroba, dove egli è scoperto e nudo in se
stesso.
Così
dimorate in lui. Chi dimora così in lui, possiede cinque cose:
1.
La prima è che tra lui e Dio non c'è più distinzione, ma sono Uno. Gli
angeli sono molti, senza numero, giacché non formano un numero, ma, per
la loro grande semplicità, sono senza numero. Le tre Persone in Dio sono
tre, senza numero, ma formano una pluralità. Invece tra l'uomo che si è
descritto e Dio non solo non c'è alcuna distinzione, ma non c'è neppure
pluralità, perché non vi è che Uno.
2.
La seconda cosa è che un uomo siffatto prende la sua beatitudine in
quella stessa purezza in cui la prende e tiene la sua dimora Dio.
3.
La terza cosa è che un uomo ha un solo sapere con il sapere di Dio e un
solo agire con l'agire di Dio e un solo conoscere con il conoscere di Dio.
4.
La quarta cosa è che Dio viene sempre generato in un tale uomo. Ma come
nasce Dio sempre in tale uomo? Fate caso a questo: quando l'uomo mette a
nudo e scopre l'immagine divina che Dio ha naturalmente creato in lui,
allora si manifesta in lui l'immagine di Dio. Nella nascita si riconosce
la manifestazione di Dio, giacché dire che il Figlio è generato dal
Padre deriva dal fatto che il Padre gli manifesta paternamente il suo
segreto. E perciò, quanto più e più chiaramente l'uomo mette a nudo
l'immagine divina in sé tanto più chiaramente Dio viene in lui generato.
Bisogna intendere così la nascita perenne di Dio, nel senso che il Padre
mette a nudo e scopre l'immagine e risplende in essa.
5.
La quinta cosa è che quell'uomo viene sempre generato in Dio. Come nasce
sempre l'uomo in Dio? Fate caso a questo: mettendo a nudo l'immagine
nell'uomo, l'uomo si rende simile a Dio, in quanto, nell'immagine, l'uomo
è simile all'immagine di Dio, a ciò che Dio è secondo la purezza della
sua essenza. E più l'uomo si mette a nudo, più è simile a Dio, e più
gli diventa simile, e più viene unito a lui. Così, dunque, bisogna
intendere la nascita perenne dell'uomo in Dio: in quanto l'uomo risplende
con la sua immagine nell'immagine che è Dio, che Dio è secondo la
purezza della sua essenza, e con la quale l'uomo è uno. Dunque l'unità
tra uomo e Dio va intesa secondo l'uguaglianza dell'immagine, infatti
l'uomo è simile a Dio secondo l'immagine. E perciò, se si dice che
l'uomo è uno con Dio e che è Dio per questa unità, si intende l'uomo
secondo la parte dell'immagine per cui è simile a Dio, e non per il fatto
che è creato.
INDICE
DEGLI AUTORI CITATI
Agostino,
Aurelio [ 3.2,
5.1,
6.1,
14.1,
15.2 ]
al-Qušayrî,
Abû
l-Qâsim [ 16.5 ]
Bacchin,
Giovanni Romano [
5.1,
9,
13 ]
Beaude,
Joseph [ 15.1,
15.3,
15.4 ]
Bellet,
Maurice [ 11 ]
Benedetto
da Canfield [
15.1 ]
Benedetto
da Norcia [ 2 ]
Berger,
Klaus [ 9.1 ]
Bonaventura
da Bagnoregio [
16.3 ]
Bruno
[ 3 ]
Clément,
Olivier [ 15.6 ]
Coda,
Piero [ 2.1 ]
Cusano,
Niccolò [ 1.2 ]
Eckhart,
Meister [ 1.2,
2,
2.1,
3.1,
3.2,
8,
10.1,
12.2,
Appendice
1,
Appendice
2,
Appendice
3 ]
Foucauld,
Charles de [ 10.2 ]
Francesco
di Sales [ 15.3,
16.4
]
Giovanni
della Croce [ 0,
8.2,
15.5,
16.3
]
Giussani,
Luigi [ 6.2,
6.3,
16.4 ]
Guardini,
Romano [ 4,
4.1,
13.1,
15.5
]
Guillerand,
Augustin [ 12.1,
17
]
Kierkegaard,
Sören [ 16.2 ]
Lanspergio
[4.1]
Montale,
Eugenio [ 4.3 ]
Mounier,
Emmanuel [ 6.2 ]
Parolini,
Rocco [ 7.4 ]
Rûmî, Gialâl ad-Dîn [
17 ]
Severino,
Emanuele [ 1.1,
2.1,
5.1,
10.1,
16.2
]
Taulero
[ 4.2 ]
Teresa
d'Avila [ 2.2 ]
Turoldo,
David Maria [ 3.3 ]
Unamuno,
Miguel de [ 7 ]
Mistica.Info è a
cura di Antonello Lotti - Sito web:
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- E-mail:
misticainfo@libero.it |